Criticato ancor prima di essere presentato pubblicamente, il piano del lavoro di Matteo Renzi sembra partire con il passo giusto. Dobbiamo ancora attendere la riunione della segreteria del PD del prossimo 16 gennaio per il documento tecnico completo e, conseguentemente, per un giudizio di merito più solido e ponderato.
La bozza divulgata ieri dal neo-segretario del PD presenta, tuttavia, non pochi elementi positivi e di novità rispetto al recente passato. È da anni, infatti, che la politica italiana pone il lavoro al centro della agenda di Governo. Le ricette sin qui prospettate non sono però riuscite a porre neppure un minimo argine alla crescente disoccupazione, soprattutto giovanile, e alla costante perdita di posti di lavoro praticamente in ogni settore produttivo. Poco o nulla ha sin qui funzionato rispetto ai tanti annunci di voler risolvere in tempi rapidi il problema lavoro. Non la soluzione muscolare del Governo Monti, con una riforma del mercato del lavoro firmata dal Ministro Fornero che ipotizzava la creazione di nuova occupazione attraverso un radicale ripensamento del quadro normativo e contrattuale (meno flessibilità in entrata a fronte di maggiore flessibilità in uscita). Ma neppure il pacchetto Letta-Giovannini, con un imponente piano di incentivi economici per le nuove assunzioni stabili (coperte per circa un terzo dallo Stato), che si è rivelato un flop in assenza di un ripensamento complessivo dell’impianto della legge Fornero su cui si è intervenuti, usando le parole del Primo Ministro Letta, con più o meno sapienti colpi di cacciavite.
La novità della proposta di Renzi sta nell’aver compreso la lezione dei fallimenti dei suoi predecessori ribaltando la prospettiva. Il lavoro non si crea per legge o decreto, ma con la crescita e il sostegno alle imprese. Da qui, una prima serie di proposte, sui costi dell’energia e del lavoro, nonché l’individuazione di misure finalizzare a rilanciare settori tradizionali del nostro Paese (manifattura, ristorazione, turismo, cultura), a anche a sostenere i settori emergenti (lavori verdi, ICT e nuovo welfare), nonché a ridare efficienza alla pubblica amministrazione.
Solo a valle di queste misure, il cui impatto si potrà ovviamente misurare nel medio e lungo periodo, il Job Act di Renzi affronta il controverso dibattito sulle regole del lavoro e cioè le norme di legge e contratto su come si assume e si licenzia. Anche rispetto a questo profilo, fonte di infinite dispute ideologiche dalla legge Biagi in poi, il piano di Renzi presenza alcune novità in primi luogo in termini di metodo.
Allo stato vengono infatti prospettare alcune ipotesi di intervento nell’ottica del documento aperto come tale suscettibile di modifiche al termine del confronto con le rappresentanze del mondo del lavoro, sindacati e imprese. Già però si nota, rispetto ad alcuni iniziali annunci che avevano giustamente dato luogo a critiche e perplessità, che l’idea di un codice semplificato del lavoro non è più una caricatura della realtà tale da far pensare, in una primissima versione, alla possibilità di governare la complessità del mercato del lavoro con soli 40 articoli di legge. Il piano del lavoro parla ora di un percorso di otto mesi per condividere un testo di semplificazione che contenga in modo ragionevole tutte le norme necessarie a governare i processi organizzativi del lavoro nel rispetto della tutela della persona che vive del proprio lavoro. Superata è anche la proposta di comprimere il dinamismo e pluralismo dei modi di lavorare e produrre in un unico schema di lavoro. Abbandonate le bozze di Boeri e Ichino, il Job Act si orienta verso un contratto unico di primo ingresso come tale valido, almeno stando a quanto è dato intuire, per i soli giovani, vittime predestinate dalla disoccupazione e del precariato. Si evita così di alimentare, almeno per ora, il dibattito senza fine sulla abrogazione o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavori.
Apprezzabili sono anche le proposte su una formazione orientata verso i fabbisogni professionali e formativi espressi realmente dal mondo del lavoro e non in chiave autoreferenziale come ancora troppo spesso avviene. Così come condivisibile, anche se onerosa e da dimostrare nella sua sostenibilità finanziaria, l’idea di un sussidio universale per chi perde il lavoro che deve tuttavia essere seriamente condizionato all’impegno di chi percepisce il denaro pubblico di cercare attivamente un nuovo lavoro anche attraverso la partecipazione a percorsi di formazione e riqualificazione professionale.
Tutto bene, allora, nel Job Act di Renzi? Difficile dirlo ora, anche perché la storia del nostro Paese mostra, non di rado, il tradimento delle buone intenzioni nella fase di attuazione. Se una perplessità può emergere è semmai quella verso l’idea di regolare per legge la rappresentanza sindacale. In una società aperta e pluralista compete alle sole parti sociali definire le linee della propria azione ed organizzazione senza che sia il Legislatore o un giudice dello Stato a indicare chi, nella dialettica intersindacale, debba prevalere. È questo il solo modo per tutelare un principio costituzionale di libertà sindacale che si fonda sulla legittimazione degli associati e il riconoscimento della controparte e non certo su una rappresentanza legale di tutti i lavoratori che finisce con lo svuotare di significato l’atto di adesione o meno a una organizzazione sindacale facendo del sindacato niente altro che una grande struttura parastatale e burocratica. È nella forza di questa visione che si spiegano, del resto, sessant’anni di convinto astensionismo legislativo in un campo di libertà e autonomia sociale dove la politica, a ben vedere, ha davvero ben poco o nulla da dire.
La garanzia di una vera libertà sindacale potrebbe del resto consentire di affiancare al Job Act quel tassello cruciale che oggi manca (come bene ha evidenziato su Linkiesta Thomas Manfredi dell’OCSE (Al Jobs Act manca una riforma della contrattazione) e cioè un sistema di flessibilità e garanzie calibrato sulle esigenze delle singole aziende. Cosa possibile e auspicabile solo attraverso una piena e convinta valorizzazione della contrattazione collettiva aziendale e territoriale oggi ancora compressa non solo da norme di legge rigide, ma anche dal predominio di contratti collettivi nazionali che frenano la produttività del lavoro, la flessibilità salariale e il dinamismo delle imprese.
Michele Tiraboschi
Direttore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
* Il presente articolo è pubblicato anche in L’Eco di Bergamo, 10 gennaio 2014, con il titolo Renzi, buone idee sul lavoro e in Linkiesta, 11 gennaio 2014, con il titolo Tiraboschi: bene il Job Act, ora nuova contrattazione.
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