Che fine ha fatto il job act? Scomparso dalle cronache, anzi desaparecido. Ormai, sulla scena del “Grande fratello” mediatico, del piano del lavoro di Giamburrasca Renzi non si parla più a “Ballarò” ma a “Chi l’ha visto?”. Nel frattempo, mani pietose hanno aggiunto una “s” di stile obamiano che non solo rende il tutto più corretto sul piano grammaticale, ma fa anche più “moda”, anzi “fashion”.
Così, lo spettro del contratto unico ritorna tra le nebbie degli spalti del castello di Elsinore trascinando seco, in cerca di vendetta, il bagaglio delle tutele differenziate e crescenti. Già, come si era potuto notare, nel documento classificato come eNews 831 era sparito, dopo il sostantivo “contratto” l’aggettivo “unico” e si erano aggiunte, al suo posto, le parole “di inserimento”. Insomma, la pietra filosofale del diritto del lavoro aveva già cambiato nomen juris e quindi anche funzione. Adesso, le cronache ben informate raccontano che l’accantonamento del job(s) act è dipeso dall’esigenza di indicare qualche soluzione di copertura soprattutto per le proposte più onerose come l’estensione in senso universalistico della protezione sociale in caso di perdita (anche di mancanza?) del lavoro. Poi, come se volessero usare un codice per adepti, i commentatori spiegano che gli sherpa stanno lavorando ad una ipotesi intermedia tra le proposte Boeri-Garibaldi e Damiano-Madia ovvero tra quella degli “ideologi” e quella dei “pratici” della teoria del “contratto unico”.
Mentre il job(S) act era intento a “lavare i panni in Arno” sono scesi in campo, in materia di lavoro, anche il Nuovo centro destra e Scelta civica. Se quest’ultima formazione politica si avvale delle elaborazioni di Pietro Ichino – il quale finalmente ha trovato un partito che ne assume, meritoriamente, le proposte – incentrate prevalentemente in questa fase, sul contratto di ricollocazione, per come è stato incluso nella legge di stabilità per il 2014. Quanto al partito di Angelino Alfano il pacchetto lavoro è sicuramente più organico e definito (in taluni casi, infatti, vengono richiamate persino norme in vigore ancorché “in sonno” a causa dell’ignavia delle parti sociali: parliamo dell’articolo 8 della legge n. 138 del 2011) di quello, appena abborracciato e molto confuso, del sindaco-segretario.
Ma le differenze tra i due documenti si intravedono; e sono parecchie ed importanti. Soprattutto se le due linee devono essere composte nella sintesi che il premier Letta sta cercando di compiere. Per quanto riguarda la contrattazione collettiva, la nota Alfano-Sacconi privilegia (con qualche eccessivo entusiasmo per la contrattazione individuale ancorchè certificata ed assistita) la negoziazione “di prossimità” (che ben si tiene insieme con gli effetti discendenti dall’applicazione del citato articolo 8) rivolta a migliorare e a qualificare una maggiore produttività del lavoro, mentre la bozza Renzi se la cava con un generico richiamo alla semplificazione con particolare riferimento alle differenti tipologie contrattuali (che non sono affatto 40) e alla problematica del nuovo codice del lavoro (per la stesura del quale otto mesi sono davvero pochi).
Giustamente ad avviso di chi scrive (tanto più dopo la sottoscrizione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio) il NCD prende posizione contro un intervento legislativo in tema di rappresentanza e di rappresentatività dei sindacati: una proposta, invece, che trovava spazio nell’eNews 381 di Renzi, in conseguenza della liaison con Maurizio Landini. Il NCD difende la flessibilità in entrata, al punto da voler ripristinare le norme della legge Biagi, modificate dalla riforma Fornero. E per quanto riguarda la risoluzione del rapporto di lavoro il NCD gioca l’asso di briscola, chiedendo una radicale modifica della disciplina del licenziamento individuale, con sanzioni solo risarcitorie e di carattere patrimoniale rimanendo la reintegra confinata ai soli casi di evidenti discriminazioni.
Tutto ciò premesso, vedremo nei prossimi giorni se la materia del lavoro entrerà a far parte del “nuovo inizio” di un governo Letta tenuto in vita nella camera di rianimazione del Quirinale. Sarebbe comunque opportuno che non si riaprisse il cantiere del diritto del lavoro mettendo nuovamente in difficoltà non solo gli operatori ma anche le imprese che ancora stentano ad orientarsi dopo la riforma Fornero. Se modifiche vanno apportate esse dovrebbero restituire flessibilità laddove le correzioni della legge n. 92/2012 sono state troppo severe. Il che non è contradditorio con una revisione del contratto a tempo indeterminato, come sembra proporre Matteo Renzi, purché, alla buon ora, si faccia chiarezza sugli obiettivi che si intendono raggiungere con la filosofia del “contratto unico”.
In sostanza, è venuto il momento di affermare che pur se venisse totalmente abolito l’articolo 18 dello statuto (una scelta, in realtà, improponibile perché una tutela contro il licenziamento ingiustificato – di cui la reintegra è solo una modalità non obbligatoria – è richiesta dalla nostra appartenenza alla UE oltreché dal nostro ordinamento costituzionale) non verrebbe certamente meno l’utilità di talune forme contrattuali disciplinate dalla legge Biagi e, prima ancora, dal pacchetto Treu. Il job on call, la somministrazione, le collaborazioni e quant’altro non sono “regali” o “sconti” ai padroni ma regole di rapporti specifici per i quali le norme del lavoro standard (il contratto a tempo indeterminato, appunto) sono insostenibili.
Analogo discorso vale per il lavoro a termine. Ha forse un senso compiuto che un’impresa – dovendo gestire una commessa imprevista, sia tenuta a dilatare per un periodo transitorio il proprio organico – anziché avvalersi di contratti a termine o della somministrazione, si infili nella trappola del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e differite? Con quale utilità, poi? Se è un pretesto per allungare il periodo di prova, non è consentito andare oltre un anno. Se invece viene in causa la tutela contro il licenziamento, anche applicando il contratto di nuovo conio ci si deve sempre porre, quanto meno, il problema – diversamente dalla conclusione alla scadenza di un contratto a termine – di un accertamento giudiziale del giustificato motivo e dell’eventuale risarcimento del danno.
Che dire poi dell’apprendistato e del part time. Ben poco se non chiedersi a che cosa serva, a fronte dell’apprendistato, un nuovo contratto di inserimento. È comunque il part time, il rapporto di lavoro più vilipeso come se fosse imposto a povere lavoratrici condannate agli arresti domiciliari tra mura domestiche a svalutare la professionalità e la carriera per badare al marito, ai figli e agli anziani genitori. Il fatto è che nei Paesi in cui l’occupazione femminile è altissima, anche il lavoro a tempo parziale delle lavoratrici è molto diffuso, nonostante una robusta struttura di servizi e di congedi parentali. Alla fine della fiera il contratto unico o di inserimento non può che andare a sbattere sulla disciplina del licenziamento, alleggerendone i vincoli anche rispetto alla riforma del 2012. Ce la farà Matteo Renzi? Non creda di cavarsela nascondendo una norma delicata sul piano politico, tra un mare di chiacchiere. I “diciottisti” a volte sembrano cani da tartufo.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
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Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Job Act: chi l’ha visto?