Tutto tende verso l’Europa: moneta, obiettivi di bilancio, politica estera, strategia energetica, normativa agricola. Come è noto, anche la legislazione del lavoro è (sempre di più) condizionata dalle decisioni di Bruxelles: si pensi, ad esempio, alla disciplina del contratto a termine recentemente riformata dal decreto-legge 34, convertito in legge 78, condizionata dai “paletti” posti dalla normativa comunitaria.
L’avvicinamento alla (o «l’invasione della», dipende dai punti di vista) Europa, pur essendo movimento inesorabile, non procede con uguale velocità in tutti gli ambiti dell’economia e della burocrazia: permangono “sacche” di italianità negativa proprio in alcuni di quei settori dove l’omologazione alla prassi comunitaria significherebbe semplificazione e ammodernamento.
Uno di questi territori franchi è quello degli adempimenti lavoristici e in particolare della c.d. busta paga (o, più propriamente, cedolino/prospetto paga).
Uno dei principi-guida dell’unificazione europea è la libera circolazione di merci, servizi e persone. Effettivamente, negli ultimi due decenni la mobilità lavorativa intracontinentale è cresciuta ininterrottamente e non solo lungo il tradizionale asse da Sud a Nord (comunque ancora prevalente). Superati nel tempo gli ostacoli di valuta e di cultura economica, nonché, tutto sommato, anche quelli di usi e abitudini (si pensi ai tratti distintivi della identificabilissima “generazione Erasmus” che popola le città tra Lisbona e Varsavia, tra Dublino e La Valletta), permangono tra i fattori che rendono difficile la migrazione lavorativa, in particolare quella “contro-senso”, le inevitabili differenze di costo della vita – e, quindi, anche salariali – e le rigidità fiscali, normative, burocratiche originate, in primis, dalle legislazioni e dalle prassi tributarie e del lavoro.
Appare a noi italiani quantomeno fantasioso immaginare un superamento a breve di queste barriere de facto; meno peregrino è invece chiedersi se non sia possibile permettere al lavoratore dipendente residente in altro Stato di comparare agilmente il trattamento che gli è riservato in patria con quello che gli sarebbe riservato in altra parte d’Europa, ove trasferirsi per ordine della stessa impresa dove è già impiegato o per scelta professionale. Si tratta, in altre parole, di chiedersi quanto siano comprensibilmente comparabili le normative “pratiche” del lavoro (non la dottrina) tra i diversi Paesi.
Per i tempi della politica forse questo tentativo di avvicinamento tra diverse legislazioni è ancora troppo precoce, ma da un punto di vista tecnico esistono soluzioni che sarebbero adottabili in breve tempo e senza costi esorbitanti.
Gli studi e le proposte già esistenti in materia di “busta paga europea” sono un esempio in questo senso. Si tratta di un documento, quello della busta paga compilata secondo standard comuni e comunitari, che contemporaneamente raggiungerebbe lo scopo di permettere al lavoratore italiano di comprendere (e verificare) le diverse componenti del suo salario; a qualsiasi lavoratore europeo di conoscere le tante variabili che determinano stipendi netti ancora sensibilmente diversi tra Paesi della stessa Unione monetaria. Gli stessi “addetti ai lavori” sarebbero ben contenti di sapere rispondere in tempi brevi e certi al numero sempre più elevato di clienti che ha esigenza di spostare dipendenti sul territorio europeo.
A poco serve auspicare grandi riforme simboliche se poi non si è capaci di migliorare la vita di tutti i giorni dei lavoratori/cittadini. Allora perché non tornare a parlare (studiare, proporre) di “busta paga europea”? Tanto più ora che con la legge delega meglio nota come Jobs Act, recentemente approvato dal Senato e in discussione alla Camera, il Governo si è impegnato alla «razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti, anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro», nonché alla «individuazione di modalità organizzative e gestionali che consentano di svolgere esclusivamente in via telematica tutti gli adempimenti di carattere amministrativo connessi con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro» (articolo 3, lettere a, f).
Si tratta solo apparentemente di norme secondarie: potrebbero avere effetti sulla vita di tutti i giorni della grande maggioranza di lavoratori ben più incidenti di molte “conquiste” che si guadagnano le prime pagine dei giornali, ma poco interessano il lavoro del presente e del futuro.
Alessandro Bonzio
Presidente ANCL Veneto
Presidente ADAPT