Jobs Act la madre di tutte le riforme

Il mondo del lavoro italiano si appresta ad affrontare l’impatto con la terza riforma del lavoro in quattro anni senza particolari aspettative e con un crescente scoraggiamento.

Nell’estate del 2011 il Governo Berlusconi provò a rispondere alla “lettera della Bce” la prima di una serie di missive piuttosto intrusive confezionate dalle istituzioni comunitarie per sollecitare il sonnecchiante riformismo italiano approvando il più anomalo e rivoluzionario atto di riforma conosciuto dal diritto del lavoro dell’ultimo decennio (dal 2003, legge Biagi), se non addirittura cinquantennio (1970, Statuto dei lavoratori): l’articolo 8 del decreto legislativo 138, poi legge 148.

Fu un tentativo tanto coraggioso, quanto incompreso: Confindustria e i sindacati ci misero poco più di un mese a rigettare politicamente quella norma, impegnandosi a non applicarla. La Bce non gradì e la spinta dei mercati e delle istituzioni sul nostro Paese fu talmente forte da far cadere il Governo in carica, inaugurando la “stagione dei tecnici”. L’esecutivo guidato dal prof. Mario Monti operò una vera e propria inversione nella politica del diritto del lavoro, sancendo la fine della stagione riformistica inaugurata con il pacchetto Treu del 1997 e sbocciata nella legge Biagi.

 

La riforma (siamo a due nel nostro conteggio) del ministro Fornero (legge 92 del 2012) determinò un inaspettato ritorno al passato, in particolare una riedizione della legislazione di dettaglio, pervasiva e ministeriale, sanzionatoria. In piena globalizzazione e, ancor più, in vigenza della crisi peggiore dei tempi moderni, la legge 92 volle (provare a) difendere il lavoratore dalla flessibilità, non nella flessibilità come si era cercato nei due lustri precedenti. Tentativo destinato a fallire, prima ancora che per le manchevolezze tecniche e le scelte inopportune, per l’infondatezza della convinzione che la flessibilità e quindi il suo semplicistico sinonimo sociologico “precarietà” sia l’esito di qualche norma e non di un frenetico, quanto inarrestabile, processo di trasformazione dell’intera economia occidentale. I pessimi dati del mercato del lavoro del successivo biennio sono un’impietosa testimonianza dell’insuccesso di qualsiasi tentativo legislativo di “creare” migliore realtà e non di leggere quella esistente.

 

Il debole Governo uscito dalle elezioni del 2013 ha provato a correggere le storture dell’anno precedente con il c.d. pacchetto Letta/Giovannini (che ha il merito il non essersi definito “riforma”, per quanto l’autodefinizione di “operazione di cacciavite” non fu certo felice), senza risultati di rilievo.

 

Ecco allora che si spiega la fretta del premier Matteo Renzi nell’approvare una riforma del lavoro (la terza, appunto) capace, finalmente, di “cambiare verso” al mercato del lavoro italiano. Il piano del capo del Governo e del suo ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, è composto per ora da due grossi capitoli e due appendici.

 

Il primo capitolo è già chiuso: a marzo è stato approvato il decreto legge n. 34 contenente “Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”, convertito poi in legge 14:e n. 78. È questo un contenitore di quegli interventi che l’esecutivo ha individuato come prioritari per “dare una scossa” al mercato del lavoro, per ottenere risultati di breve termine capaci di riattivare la fiducia di lavoratori e imprese. Essenzialmente, il vero contenuto originale del decreto è stata la c.d. liberalizzazione del contratto a tempo determinato, ovvero la disposizione che permette di stipulare contratti a termine di durata massima 36 mesi (comprensiva di massimo cinque proroghe) senza obbligo di specificazione della causale che giustifica il ricorso a questa tipologia queste pagine e nelle contrattuale e non a quella standard, ovvero il contratto a tempo indeterminato. Si tratta di una misura inedita, politicamente e sindacalmente impossibile solo un paio di anni fa, dagli effetti tutt’altro che secondari, se si considera che nel corso dell’ultimo anno il 70 per cento dei nuovi contratti di lavoro è stato a termine.

 

Il sillogismo del ministro Poletti, tanto pragmatico quanto contestato, è stato proprio questo: considerato che le (poche) aziende che assumono, lo fanno a termine e che lavorare a termine è comunque meglio che non lavorare, semplifichiamo la disciplina del contratto a tempo determinato perché possa ancor di più diffondersi l’unica tipologia contrattuale che non risente della crisi (anche perché ne è un segnale indiretto, fenomeno anticiclico) e quindi qualche migliaio di persone in più possano lavorare. A circa otto mesi dalla prima approvazione del decreto, i dati mensilmente comunicati dall’Istat paiono restituire la perdita della scommessa. Questo è uno dei fattori che condiziona il clima che pervade la discussione attorno al secondo capitolo del disegno riformistico renziano, ovvero la legge 14 delega meglio nota come Jobs Act, approvata in ottobre al Senato e in discussione alla Camera.

 

La strategia del Governo

 

L’accusa ricorrente è quella di voler precarizzare ancor più il mercato del lavoro. Non giova alla serenità del dibattito l’aver usato l’articolo 18 come simbolo da fare cadere, per quanto proprio su questo messaggio tecnicamente equivoco, poiché in nessun modo si interviene sulla disciplina dei licenziamenti oggi vigente, bensì si progetta di inserire nell’ordinamento un nuovo contratto a tempo indeterminato che ha nella crescente tutela economica, invece che nel reintegro, l’effetto di un provato licenziamento senza giusta causa si fonda buona parte della strategia del Governo che innanzi tutto intende dare un segnale di effettivo cambiamento, che, solo se colto come realmente dirompente e semplificarne, può attivare gli animal spirits degli imprenditori e convincere anche i più restii a tornare ad investire in nuova occupazione.

 

Nessuna legge ha nelle sue disponibilità la creazione di nuovo lavoro, ma certamente può scoraggiare (o incoraggiare) chi è disposto a “rischiare” di legarsi in un rapporto lavorativo, nel nostro Paese giuridicamente più protetto e più difficilmente interrompibile del rapporto familiare.

Che sia il nuovo contratto a tutele crescenti il simbolo scelto dal Governo per comunicare la sua volontà riformatrice è confermato anche dalla prima “appendice” a questo disegno, ovvero la legge di Stabilità in corso di approvazione, che tanto scommette sull’approvazione di questa evoluzione contrattuale da destinare non pochi fondi all’esenzione totale dei contributi connessi al nuovo tempo indeterminato per tre anni, sommando quindi una rilevante incentivazione economica a quella normativa.

Per quanto abbia monopolizzato l’attenzione mediatica, il nuovo contratto a tempo indeterminato non è comunque l’unico contenuto della legge delega in discussione alla Camera e forse non è neanche il più rilevante in termini di impatto sul tradizionale diritto del lavoro. Sono cinque i macro ambiti di intervento: politiche passive, politiche attive, riordino dei contratti di lavoro, semplificazione e razionalizzazione delle procedure connesse alla costituzione e gestione del rapporto di lavoro e sostegno alla genitorialità, maternità, conciliazione vita-lavoro.

 

I primi tre sono certamente i più importanti e contengono alcuni principi di delega piuttosto innovativi per il nostro diritto del lavoro: rimodulazione dell’ASpI, estensione del trattamento di sostegno al reddito anche ai c.d. co.co. pro., sussidio universale per gli indigenti, cassa integrazione pagata da tutti i suoi utilizzatori, razionalizzazione di tutti gli incentivi all’assunzione, creazione di una Agenzia nazionale per l’occupazione, connessione politiche attive pubbliche e private, semplificazione normativa mediante un Testo Unico semplificato (magari da innestare nel Codice civile), demansionamento, nuove norme sul controllo a distanza, sperimentazione del compenso orario minimo.

Si tratta di progetti ambiziosi, tratti dal dibattito tra gli addetti ai lavori nell’ultimo decennio senza una particolare linea guida ideologica di fondo: convivono a poca distanza proposte tradizionalmente “di sinistra” o sindacali con princìpi tipici della regolazione “liberale” anglosassone. La vera apprensione è per l’esito finale: promuovere nuova occupazione.

 

Il flop di Garanzia Giovani

 

Peccato allora che il Governo non abbia dato maggiore peso all’andamento della seconda “appendice” a questo complesso disegno riformatore, ovvero il piano europeo Garanzia Giovani, che in Italia sta andando malissimo. Si tratta di un progetto comunitario la cui attuazione è stata ereditata dal Governo precedente e che porta nel nostro Paese 1,5 miliardi di euro (!) da destinare alla riattivazione dei giovani Neet (i ragazzi tra i 15 e 29 anni che non studiano e non lavorano, 2.250.000 persone circa). Dopo sette mesi dalla sua inaugurazione il piano stenta a decollare: i giovani non lo conoscono, le imprese non lo considerano, le Regioni non lo applicano.

 

Eppure si tratta del più importante stanziamento dedicato alle politiche attive da quando è iniziata la crisi. Se non si è capaci di fare funzionare quanto già esiste, è già approvato ed è già finanziato, come pensare di scommettere su nuove norme e nuovi incentivi? È però un altro il principale significato di questo “flop” che il Governo dovrebbe cogliere: Garanzia Giovani dimostra ancora una volta che la disoccupazione giovanile (il principale problema del nostro mercato del lavoro e la preoccupazione sulla bocca di tutti i politici e addetti ai lavori) non si contrasta a colpi di norme e sussidi, ma ripensando la qualità della formazione che i ragazzi ricevono prima di impattare (violentemente) col mondo del lavoro.

 

Intervenire solo nel momento della transizione scuola-università-lavoro vuol dire essere in ritardo e dovere necessariamente agire in emergenza, con misure eccezionali e senza portata strutturale (come la decontribuzione per tre anni, appunto). La soluzione è invece da trovare “a monte”, mettendo in discussione la qualità dei percorsi secondari superiori e universitari che i giovani frequentano. Corsi di studio autoreferenti, distantissimi dal mondo del lavoro (e dalla realtà, quindi), costruiti sulle esigenze dei ministeri e dei docenti, non su quelle dei ragazzi e (seppure in seconda battuta) del tessuto produttivo che dovrebbe assorbirli. Senza integrare formazione e lavoro tanto nei percorsi formativi quanto nei progetti legislativi il dramma della disoccupazione giovanile è destinato a non essere risolto, determinando il fallimento di qualsiasi progetto di riforma, pure meritevole come il Jobs Act renziano.

 

Emmanuele Massagli

Presidente di ADAPT

@EMassagli

 

* Pubblicato anche in Tempi.it, Speciale Pmi, 3 dicembre 2014.

 

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