Al nuovo Ministro del lavoro spetta un compito difficile, l’attuazione del Jobs Act attraverso le corpose (e allo stato ancora generiche) deleghe contenute nel decreto approvato ieri dal Consiglio dei Ministri.
Molto dipenderà, indubbiamente, dall’andamento dei mercati e da quanto potrà fare il Ministro dell’economia sulla riduzione del cuneo fiscale, che incide sulla propensione ad assumere. Vero è, tuttavia, che talune storiche criticità dell’articolo legislazione del lavoro e delle politiche per l’occupazione rendono ancora oggi attuale il giudizio di Marco Biagi che indicava nel nostro uno dei peggiori mercati del lavoro in Europa.
Rari sono gli investimenti di imprese straniere, spaventate da eccessi di burocrazia e di litigiosità, ed anche le imprese italiane, quando possono permetterselo, sempre più di frequente decidono di andare a investire altrove, perché non sono disponibili a sopportare un ordinamento del lavoro irrazionale che, con eccesso di rigore, punisce chi incappa in errori formali, mentre non riesce a contrastare l’economia sommersa, che copre quasi un quarto del PIL.
L’agenda del nuovo Ministro dovrebbe quindi mettere al primo posto il tema della semplificazione delle regole e delle procedure, a partire da una profonda revisione della riforma Fornero. Andrebbero poi riviste quelle norme che hanno prodotti contenzioso importanti senza frenare in alcun modo gli abusi, come la causale dei contratti temporanei.
Servirebbe anche un investimento strutturale sulla retribuzione di produttività, finita su un binario morto fatto di interventi temporanei, applicazioni elusive e risorse insufficienti, anche per sostenere il percorso di decentramento contrattuale, che altri Paesi, Spagna e Germania in primis, hanno da tempo completato.
C’è poi il grande problema della professionalità e delle competenze, che sono deboli, a causa di percorsi formativi lontani dai fabbisogni espressi dal mercato del lavoro, e si bruciano rapidamente.
Le poche aziende che investono in formazione non sono adeguatamente incentivate, e ancora fatica ad essere accolta l’idea della valenza formativa e culturale del lavoro. È forse questa una delle ragioni del mancato decollo dell’apprendistato che, per funzionare, deve poter contare sul sostegno sia del sistema di relazioni industriali sia di una vera integrazione tra scuola e lavoro. Decisiva, in questa prospettiva è anche la riforma dei sistemi di classificazione del personale, ancora troppo rigidi e incentrati su modelli organizzativi non più esistenti.
Il mercato del lavoro avrebbe anche bisogno di servizi per l’impiego funzionanti. Serve un ripensamento complessivo del modello, che metta al centro del sistema la persona e, con essa, il “servizio” che deve poter essere erogato da chiunque, a condizione che abbia alcuni requisiti minimi di serietà e affidabilità. Basterebbe prendere spunto dalle esperienze e buone prassi regionali, come quella della dote unica. L’elenco potrebbe continuare fino a giungere alle complesse tematiche del processo del lavoro e dell’arbitrato di equità ancora bloccato da veti e pregiudiziali ideologiche.
Per ottenere dei risultati significativi, sarà importante il metodo; chi si occupa delle complesse questioni del lavoro sa che non esistono soluzioni a tavolino, calate dall’alto in modo dirigistico. Solo coltivando il metodo delle relazioni industriali, che altro non sono se non una espressione della sussidiarietà e del pluralismo, si potranno modernizzare le attuali regole del lavoro, pensate per una epoca e un modello unificante, quello della grande fabbrica fordista, che non c’è più.
Giampiero Falasca
Avvocato giuslavorista
@Falasca73
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT