Dicono i saggi che «cosa fatta capo ha» e quindi prendiamo atto che il Jobs Act ha superato la prova di Montecitorio senza bisogno di ricorrere al voto di fiducia, come in un primo tempo era sembrato necessario. Almeno in questo caso il governo ha dimostrato di saper portare a casa il risultato pieno onorando, tutto sommato, anche la dialettica parlamentare.
Nessuno si illude che il provvedimento crei in automatico nuovi posti di lavoro, ma nell’attesa di politiche concrete per la ripresa la normativa italiana si allinea quantomeno agli standard europei, e smette di essere considerata anomala. Da qui il favore con il quale le autorità comunitarie e i mercati hanno guardato sin dall’inizio all’iter d’approvazione del Jobs Act.
Il dibattito di queste settimane ha avuto il torto di concentrarsi eccessivamente sul tema dell’articolo 18 e di tralasciare altri elementi che avrebbero meritato maggiore spazio e approfondimento. Penso ai meccanismi che dovranno produrre «tutele crescenti» o all’introduzione del salario minimo per legge.
I deputati che nel Pd hanno osteggiato la legge e abbandonato l’Aula (o votato no) non hanno apportato grandi idee nella discussione, la loro cultura laburista è comunque di tipo tradizionale e anche la conoscenza dei mutamenti del mercato è superficiale. Lo scopo dei malpancisti era quello di segnare una posizione identitaria in piena continuità con la storia della sinistra radicale, tanta ideologia e poca ricognizione.
Ora il testo va al Senato e si confida in un iter veloce, così che la (delicata) stesura dei decreti delegati possa esser compressa nel minor tempo possibile. Ma nei panni del premier e del ministro competente non allenteremmo la presa sul tema lavoro, perché c’è un dente che duole e rischia di cadere: la Garanzia giovani. Stiamo facendo una doppia figuraccia, nei confronti della Ue che l’ha finanziata e dei ragazzi ai quali non la stiamo spiegando.
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Jobs Act, ora un iter rapido sui giovani flop doloroso