Che la nuova disciplina del licenziamento individuale si applichi anche al pubblico impiego è stato escluso, dopo qualche dubbio iniziale, dal Governo, il quale ha inteso affidare la materia al disegno di legge delega sulla riforma della pubblica amministrazione. A dare credito al dibattito, l’esecutivo sembrerebbe intenzionato ad adottare procedure meno farraginose di quelle ora previste nel caso di licenziamento disciplinare senza però deviare, in nessuna circostanza, dalla regola generale della reintegra a fronte di un recesso ritenuto illegittimo. La questione, tuttavia, è controversa all’interno della maggioranza. In Commissione Lavoro al Senato, il presidente Maurizio Sacconi (Ncd), relatore del parere sullo schema di dlgs n.134, ho sostenuto la sua applicabilità anche al pubblico impiego, senza dover necessariamente affrontare il problema nel ddl Madia.
‘’In relazione ai contenuti del decreto e in base ad un’interpretazione sistematica – ha sostenuto il sen. Sacconi nella sua ampia relazione introduttiva – la nuova disciplina si deve ritenere applicabile anche ai dipendenti del pubblico impiego. La circostanza che il decreto legislativo non contenga un’ulteriore previsione esplicita volta ad escludere la sua applicabilità al settore pubblico, consente la piena efficacia dell’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001 (testo unico per il pubblico impiego), secondo il quale i rapporti nel settore pubblico “sono disciplinati … dal codice civile e dalla legge sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni a carattere imperativo”. L’omologazione tra lavoro pubblico e lavoro privato – ha proseguito – con le sole eccezioni riferibili alle procedure concorsuali di accesso e alle cosiddette amministrazioni d’ordine (magistrature, polizie, forze armate, carriere diplomatica e prefettizia), consentirebbe la contestuale evoluzione di tutti i rapporti di lavoro verso obiettivi di qualità delle prestazioni, di giusta remunerazione connessa alla produttività, di mobilità professionale per ragioni di merito, di efficace sanzione – fino al licenziamento disciplinare – per accertate inadempienze del lavoratore. Le esperienze di questi anni, dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro nel 1993, consigliano – è questa la considerazione conclusiva su questo aspetto – la scelta di una via lineare fondata anche sulla responsabilizzazione dei rappresentanti del datore di lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni attraverso la contabilità analitica per centri di costo’’.
Appare evidente che, nella relazione richiamata, gli elementi di carattere politico sono prevalenti rispetto a quelli di ordine tecnico-giuridico. Aggiusta il tiro, arrivando a valutazioni analoghe, corredate tuttavia di un bagaglio più ricco sul piano della giurisprudenza, il Servizio Studi della Camera nel predisporre le consuete Schede tecniche per i lavori della XI Commissione, presieduta da Cesare Damiano. Ai funzionari del Servizio Studi non è consentita una presa di posizione esplicita come quella del sen. Sacconi. Ma è significativo che il testo raccomandi – se il pubblico impiego deve essere escluso sulla base di una decisione di carattere politico – ‘’una apposita clausola di esclusione’’: ‘’Con riferimento all’ambito di applicazione soggettivo del provvedimento, si rileva l’opportunità di chiarire se esso trova applicazione per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni[1](in primo luogo per quanto concerne i licenziamenti disciplinari illegittimi),eventualmente prevedendo – nel caso si volesse limitarne l’applicazione al settore privato e, in ogni caso, al fine di evitare incertezze interpretative – una apposita clausola di esclusione’’. Secondo il Servizio Studi, infatti, esisterebbe un orientamento maggioritario nella giurisprudenza che porterebbe a dare applicazione diretta nel settore pubblico ‘’quanto meno con riferimento alla disciplina dei licenziamenti individuali illegittimi’’. Del resto, secondo la medesima fonte, basterebbe passare in rassegna alla legislazione precedente per stabilire che, laddove il legislatore volle escludere dall’applicazione di una legge il pubblico impiego, lo fece in maniera esplicita. In caso contrario opererebbero, in automatico, le regole della privatizzazione del rapporto. E’ il caso, allora, di riportare il testo di cui trattasi nella sua interezza.
‘’Al riguardo si fa presente che in mancanza di una previsione normativa che limiti l’applicazione del provvedimento al settore privato, esso sembrerebbe – alla luce dei principi desumibili dalla normativa vigente, come interpretata dalla giurisprudenza – trovare diretta applicazione nel settore pubblico, quanto meno con riferimento alla disciplina dei licenziamenti disciplinari individuali illegittimi.
L’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo n.165/2001[2] prevede, infatti, che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto”; il successivo articolo 51, comma 2, del medesimo decreto legislativo n.165/2001, aggiunge che “La legge n.300/1970 e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”[3].
La diretta applicabilità del provvedimento in esame al settore pubblico in mancanza di una clausola espressa di esclusione, potrebbe desumersi anche dalla legge n.92/2012[4], che ha, tra l’altro, riscritto l’articolo 18 della legge n.300/1970, riducendo l’area della tutela reale in caso di licenziamenti illegittimi. Per quanto riguarda l’ambito soggettivo di applicazione della legge, i commi 7 e 8 dell’articolo 1 hanno previsto che “le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni” e che “il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”. Nonostante il fatto che le norme di armonizzazione non siano state (fin qui) adottate, la giurisprudenza maggioritaria[5] ritiene infatti direttamente applicabili al pubblico impiego le disposizioni della legge n.92/2012 che hanno riscritto l’articolo 18 della legge n.300/1970 (Statuto dei lavoratori), facendo leva sul principio generale codificato dall’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo n.165/2001, in base al quale (come detto poc’anzi) i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle leggi (tra le quali rientra la legge n.300/1970 e la stessa legge n.92/2012 che l’ha modificata) sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa.
Merita segnalare, infine, che in altri casi nei quali il legislatore ha voluto escludere l’estensione al pubblico impiego – si afferma conclusivamente nella Scheda – di una legge volta a disciplinare “i rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”, lo ha fatto attraverso una clausola di esclusione espressa, come nel caso del decreto legislativo n.276/2003 (attuativo della legge n.30/2003, c.d. legge Biagi), che ha introdotto nell’ordinamento una serie di nuove forme contrattuali flessibili, sancendo (articolo 1, comma 2) che “Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”.
La raccomandazione del Servizio Studi merita certamente di essere accolta per evitare dubbi interpretativi. Ma sarebbe certamente positivo realizzare, come ha chiesto il presidente Sacconi, una maggiore omogeneità tra il settore pubblico e quello privato, mediante quelle norme di coordinamento che non sono mai state adottate, anche se previste dalla legge n. 92 del 2012. Tutto ciò premesso e condiviso, nel caso del Jobs act Poletti 2.0, restiamo comunque convinti che già l’articolo 1, quando limita il campo di applicazione ai neoassunti ‘’operai, impiegati o quadri’’, senza citare i dirigenti, confermi la mancata applicazione del provvedimento al pubblico impiego.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus
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