La buona scuola di Renzi tra i paradossi di Zenone e di Antistene

Ci sono almeno tre considerazioni da fare sulla politica scolastica del Governo Renzi, riassunta nel documento molto “americano” (perfino negli improbabili a capo) intitolato La buona scuola. Facciamo crescere il paese.

La prima è in apparenza paradossale. Partiamo da due fatti. Il Governo concede ai sindacati, per sua stessa ammissione, il doppio (160 mila) dei posti necessari per coprire gli organici funzionali di istituto (80 mila), riedizione delle democristiani “docenti di ruolo soprannumerario” (anni settanta) e poi delle non meno note e creative sempre democristiane “dotazioni organiche aggiuntive (anni ottanta). Motivazione: eliminare le supplenze che lo stesso documento del Governo giudica però ineliminabili quando saranno brevi. E a ragione, perché il problema “supplentite”, al di la dei twitter di circostanza, è irrisolvibile, lasciando l’organizzazione attuale della scuola. Bisognava avere il coraggio di rovesciarla come un guanto, per eliminare davvero il rischio di questa malattia. Come per un attimo aveva lasciato sperare la legge n. 53/2003 quando ipotizzava i Larsa.

 

Secondo fatto. Nei 160 mila assunti, il Governo inserisce anche 20 mila docenti di sport (educazione fisica), musica e storia dell’arte ormai ben attempati che altrimenti rimarrebbero nel precariato per tutta la vita. Un dramma umano. La si può indorare come si vuole, questa disposizione. Parlare di completezza paidetica, di creatività democratica da assicurare anche ai figli degli incapienti che non si possono permettere questi tipi di educazione elettiva e via con tutti gli slogan che abbiamo sentito. La realtà, però, è soltanto questa: farsi ringraziare da una cifra consistente di docenti illusi da una demenziale politica del personale condotta in questi decenni.

 

Fosse come appare dai due fatti, dunque, i sindacati della scuola dovrebbero andare a Lourdes per grazia ricevuta. Invece no. Anzi. Tira aria di tempesta. Capiscono che il Governo gioca in proprio. Conduce queste operazioni con una guerra di movimento che aggira il sindacato e lo rende ininfluente. Parla, infatti, prima di tutto, direttamente, senza mediazioni, al bacino elettorale che lo ha eletto. Tecnica molto più che berlusconiana del consenso. Inoltre, evita anche la botta mediatica delle multe della Corte di giustizia europea dei prossimi mesi, guadagnando altra udienza e credibilità pubblica, perché dal 1999 lo Stato italiano, attraverso i suoi governi e con la complicità dei sindacati ostili ad ogni cambiamento della struttura organizzativa della scuola, ha fatto esattamente il contrario di quanto ha imposto severamente ai privati: ovvero, pur di mantenere la scuola che c’è, reiterare contratti di lavoro a tempo determinato per più di tre anni (siamo ormai a precari che hanno un’età media di 41 anni e che possono vantare un buon 35% quasi 15 anni di precariato).

 

Infine, dopo la botta ai distacchi sindacali applaudita da tutti, il Governo crea anche le condizioni affinché lo Stato possa tornare, almeno nella scuola, a parlare di rispetto delle leggi e di educazione ai valori della Costituzione senza dover subito arrossire come paradigmatico controesempio: che senso aveva, infatti, invitare all’educazione civica se violava per primo le norme che lui stesso aveva emanato? La conclusione è, almeno per un aspetto, di sistema, e non è da sottovalutare.

 

La politica torna a rivendicare una priorità. Renzi rifiuta la subalternità all’accoppiata infrangibile degli ultimi decenni: burocrazia amministrativa e burocrazia sindacale. Accoppiata che ha liquidato ogni vera prospettiva di riforma aperta all’inizio del secolo. Fa, per la verità, le stesse cose di questa accoppiata. Se non peggio. Ma le fa lui. Se le intesta in prima persona. Addirittura commissariando il Ministro della pubblica istruzione. Chissà, forse, tra qualche decennio, sarà davvero possibile alla politica italiana, se ancora esisterà, cambiare davvero la scuola, assumendosene le responsabilità, senza essere ostaggio delle corporazioni che finora hanno impedito ogni movimento. Prospettiva escatologica più che cronologica? Forse. Ma la speranza è fondata.

 

Seconda considerazione. “Botto”. “Rivisitazione rivoluzionaria delle regole del gioco”. “Disegnata la scuola dei prossimi 30 anni”. Questo dicono i commenti interessati sui social network a La buona scuola. Facciamo crescere il paese. Cala Trinchetto. In verità, proprio niente di tutto questo.

 

Il tratto fondamentale del documento, a parte la questione delle coperture finanziarie (ma se la vedrà il Mef), è una razionalizzazione dell’esistente. Sedarne i sintomi più dolorosi. L’introduzione di qualche mutamento «nella cornice», insomma, per dirla con Bateson e Watzlawick, ma niente cambiamento più o meno radicale «della cornice». Intanto, però, raggiunge un risultato questo sì se non “rivoluzionario”, almeno decisamente “innovativo”: sdogana per la prima a volta a sinistra un armamentario concettuale che finora ha sempre suscitato, in quell’area politico-sindacale-culturale, durissime reazioni pavloviane di tipo sovietico.

 

Anzitutto il concetto di “merito”. Che qui si assumano 160 mila persone senza filtri di qualità che non sia la mera presenza nelle graduatorie ad esaurimento (forse nervoso!), è meno importante del fatto che si dica loro e, si badi bene, anche a chi è in servizio che, in futuro, scompariranno gli scatti automatici e che gli aumenti saranno solo legati a qualche funzione misurabile (da maggiori ore a scuola alla figura del docente mentor, timidissima “americanata” che accenna, per preterizione, alle ipotesi contenute nell’art. 5 della legge n. 53/2003 e alle ben più innovative proposte di carriera del docente ricavate da quell’articolo e contenute nella proposta di legge Aprea del 2008).

 

In secondo luogo, cosa che dovrebbe risultare imbarazzantissima per i molti che avevano fatto della lotta contro questo slogan quasi una loro ragione di vita politica e sindacale, assistiamo al non timido e non americano rilancio delle tre “I” di morattiana memoria: Internet, Inglese e Impresa. Non c’è nulla, per la verità, del cambio «di cornice» con cui, tra il 2001 e il 2003, si tentò di sottrarre le tre “I” al rischio del minimalismo tipico dei meri aggiustamenti «nella cornice». Però anche il loro solo rilancio «nella cornice» scolastica attuale è una svolta di mentalità.

 

Certo, non si condannerà mai a sufficienza l’abitudine a scambiare l’obesità dei piani di studi a cui si aggiungono ore e discipline per qualità educativa e culturale della scuola. Oppure non si deprecherà mai a sufficienza il fatto che se, finalmente, nell’istruzione tecnica e professionale, tutti i ragazzi dovranno fare almeno 200 ore annue di formazione col lavoro (di apprendistato o di alternanza) negli ultimi tre anni, proprio questa disposizione finisce per confermare in maniera potentissima il pregiudizio che doveva, invece, contribuire ad abbattere.

Se, infatti, è vero che il lavoro è una straordinaria occasione di crescita educativa e culturale perché non si estende l’obbligo delle 200 ore anche ai giovani liceali? Inoltre, perché devono esserci 200 ore di «lavoro» separate da 900 di «scuola»? Non significa anche questo pensare impossibile la continua alternanza formativa logica e cronologica tra teoria e pratica, tra studio e lavoro in ogni momento dell’insegnamento-apprendimento, per l’intera durata dei percorsi formativi come prevedeva l’art. 4 della legge n. 53/2003? Ma non si può voler troppo da una classe politica come quella che abbiamo. Accontentiamoci intanto della lenta digestione che l’arcipelago della sinistra italiana dovrà fare di questi bocconi sempre rifiutati. E speriamo si possa ripartire per una nuova stagione di vere riforme anche culturali.

 

Terza e ultima considerazione. Ci sono due modi di intendere il riformismo. Il primo è quello opportunistico, schiacciato sulla contingenza elettorale e sulla raccolta immediata del consenso. La mediazione per la mediazione. Il secondo è quello autentico che motiva il futuro e traccia prospettive. Avere in mente un disegno. Esplicitarlo. Chiamare le persone a condividerlo. Stendere poi una roadmap anche temporale per realizzarlo, che tenga conto dei vincoli e dei problemi a volta a volta emergenti. Appunto: qual è il sistema di istruzione e formazione che vogliamo possa essere frequentato da chi nasce nel 2015 e che, dunque, deve preparasi alle sfide del XXI secolo, non degli ultimi due secoli? Bisogna essere molto chiari nella risposta perché è in base alla causa finale da raggiungere che si può valutare la pertinenza dei mezzi messi in campo per promuoverla. Senza concitazioni e forzature, ma anche senza derive o naufragi.

 

Perché un conto è ritenere che, da qui al 2040, la scuola debba continuare ad essere organizzata come è adesso (graduatorie, disciplinarismo, divisione in classi, gradi e ordini, separazione dai mondi vitali, trasferimenti, concorsi centralizzati ecc.) che poi vuol dire, in sostanza, come lo è stata dal 1923, un altro aderire all’idea opposta, finora sempre violentemente osteggiata dai rumorosi conservatori dissimulati dietro le facili indignazioni di progressiste fraseologie rivoluzionarie.

 

Un conto è pensare come un trascendentale dello spirito l’esistenza di una gerarchia educativa, culturale e sociale tra licei, istituti tecnici, istituti professionali, centri regionali della formazione professionale e apprendistato, un altro mirare alla effettiva, non declamata, pari dignità culturale, educativa e sociale di tutti questi percorsi che, quindi, non dovrebbero più esistere come li abbiamo, ovvero tra loro separati, ma tra loro integrati, come aveva tentato di rendere possibile le legge n. 53/2003.

 

 

Un conto è pensare che, nel 2040, i nostri giovani nati oggi siano diventati maggiorenni avendo, tutti, potuto sperimentare che lo studio non è attività in alcun modo separabile dal lavoro e avendo imparato, tutti, nessuno escluso, anche un lavoro qualificato, e un altro ritenere velleitario o sbagliato questo scenario perché convinti che esistano i “meritevoli” e gli “eccellenti” adatti alla scuola e i “biasimevoli” e i “normali” da destinare al lavoro.

 

Un conto, infine, è pensare che lo Stato debba ancora essere il gestore del 96% delle scuole secondarie, tollerando anche con certo fastidio la parte residuale affidata alle scuole pubbliche non statali paritarie e a qualche centro formativo delle Regioni, un altro immaginare uno Stato che si concentra sul Governo (serio) e sul controllo (rigoroso) del sistema di istruzione e formazione, affidandone interamente la gestione, dagli organici agli orari al reclutamento, alle «formazioni sociali all’interno delle quali ciascuno sviluppa la propria personalità» (art. 2 della Costituzione), cioè alle scuole e alle reti di scuole, alle famiglie, alle associazioni, agli enti locali.

Ecco ciò che proprio non è chiaro de La buona scuola è la sua causa finale, verso che nebulosa ci muoviamo. O forse la sanno soltanto gli efori sapienti e misteriosi che l’hanno redatta e, un po’ come la caviglia di Madame de Renan, ce la mostreranno a poco a poco. Per non scandalizzare la gente comune, il volgo per definizione né intellettuale dei nostri sneakers, né ceto sedicente riflessivo, né, tantomeno, accolita di ottimati.

 

Dimenticando però la lezione di Dahl (Sulla democrazia, 1998) il quale ricordava in proposito due principi strategici: a) i cittadini sono gli unici in grado di scegliere ciò che è meglio per il loro bene: è pericoloso non fare patti chiari con loro affinché possano scegliere tra alternative; b) la democrazia non è più tale se basata su visioni monarchiche od elitiste; essa non può assumere l’implicito presupposto del primato della politica o della funzione demiurgica di una nuova statualità che metta in riga verticalmente il sociale; bisogna, al contrario, avere il coraggio di una democrazia «poliarchica», da noi si dice e dice la Costituzione «sussidiaria».

 

Ebbene, da questo punto di vista, fa impressione che La buona scuola, da un lato, taccia sulla parità e, dall’altro, addirittura rimuova le Regioni e gli enti locali da ogni interlocuzione non solo sul presente (per es. di sistema dell’istruzione e formazione professionale non si parla) ma addirittura sul disegno futuro del sistema educativo nazionale. E che operi questo funerale prima ancora che la Costituzione l’abbia celebrato (o gli articoli 117 e 118 della Costituzione non sono più vigenti?).

 

Giuseppe Bertagna

Coordinatore Scuola internazionale di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

 

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La buona scuola di Renzi tra i paradossi di Zenone e di Antistene
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