La certificazione della parità di genere: siamo solo agli inizi

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Bollettino ADAPT 19 settembre 2022, n. 31
 
Il sistema nazionale di certificazione della parità di genere, come ripercorso in un precedente contributo (S. Negri, PNRR e parità di genere: le principali misure e l’attuale livello di implementazione, in Bollettino ADAPT n. 26/2022), è stato previsto all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con l’obiettivo, da un lato, di monitorare le condizioni di lavoro degli uomini e delle donne e dall’altro, di diffondere una maggiore consapevolezza e cultura sulle questioni di genere e nel lungo periodo avere un impatto positivo sull’occupazione femminile.
 
Con una integrazione al Codice delle pari opportunità, ad opera della Legge 162/2021, è stata così istituita la certificazione della parità di genere nel nostro Paese. L’articolo 5 della stessa legge, al fine di incoraggiare le aziende ad avviare la procedura di certificazione, ha previsto due vantaggi: un esonero contributivo in misura non superiore all’1% e nel limite massimo di 50.000 euro annui per ciascuna azienda e l’ottenimento di un punteggio premiale per la partecipazione a bandi e fondi europei, nazionali e regionali. La Legge di Bilancio per il 2022, invece, incrementando la dotazione del Fondo per il sostegno della parità salariale di genere (fondo che già istituito presso il Ministero del Lavoro con la legge di Bilancio 2021), ha stanziato risorse utilizzabili per interventi volti al sostegno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, anche attraverso la definizione di procedure per l’acquisizione di una certificazione della parità di genere da parte delle imprese. Inoltre, è stato istituito un Fondo per il finanziamento delle attività di formazione propedeutiche all’ottenimento della certificazione.
 
A completamento del quadro normativo, i parametri minimi per ottenere la certificazione sono stati definiti con il DPCM del 29 aprile 2022, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale l’1 luglio 2022, e sono quelli individuati dalla Prassi di riferimento UNI 125:2022. La Prassi UNI 125:2022, denominata “Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator – Indicatori chiave di prestazione) inerenti alle Politiche di parità di genere nelle organizzazioni” riflette gli esiti del confronto svoltosi nel Tavolo di lavoro sulla certificazione di genere delle imprese previsto dal PNRR (Missione 5), coordinato dal Dipartimento per le Pari Opportunità e a cui hanno partecipato il Dipartimento per le politiche della famiglia, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il Ministero dello Sviluppo Economico e la Consigliera Nazionale di Parità. L’istituto di normazione, creando una apposita commissione che dialoga con le commissioni che stanno portando avanti l’iter legislativo, ha definito quindi uno standard di riferimento che deve essere utilizzato per la certificazione della parità di genere.
 
La Prassi UNI ha fissato una serie di KPI (Key Performance Indicator), suddivisi in sei aree di indicatori che racchiudono una serie di variabili che caratterizzano una organizzazione inclusiva e rispettosa della parità di genere. Le sei aree individuate sono: (1) cultura e strategia; (2) governance; (3) processi HR; (4) opportunità di crescita ed inclusione delle donne in azienda; (5) equità remunerativa per genere; (6) tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro. Ciascuna area ha uno specifico peso percentuale nella valutazione dell’organizzazione aziendale. Gli indicatori che costituiscono ciascuna area sono connessi a un punteggio e sono finalizzati a misurare il grado di maturità dell’organizzazione attraverso un monitoraggio annuale e una verifica ogni due anni. L’area “cultura e strategia” si compone di 7 indicatori e ha un peso pari al 15%. Nell’area “governance” sono previsti 5 indicatori e un peso pari al 15%. I “processi HR” si costituiscono di 6 indicatori e il peso è pari al 10%. La quarta area definita “opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda” ha 7 indicatori e il peso è pari al 20%. L’ “Equità remunerativa per genere” dispone di 3 indicatori e ha un peso del 20%. Infine la sesta e ultima area “tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro” ha 5 indicatori e un peso pari al 20%.
 
La Prassi differenzia il monitoraggio delle organizzazioni aziendali in quattro diverse fasce organizzate sulla base delle dimensioni aziendali (rifacendosi alla tassonomia Istat): micro-organizzazione (1-9 addetti), piccola organizzazione (10-49 dipendenti), media organizzazione (50-249 dipendenti), grande organizzazione (250 e oltre). In questo modo le aziende di più piccole dimensioni verranno valutate solo in relazione ad alcuni obiettivi con una distinzione rispetto alle aziende di più grandi dimensioni.
 
Sempre stando al DPCM dello scorso 29 aprile, al rilascio della certificazione della parità di genere alle imprese in conformità alla UNI/PdR 125:2022, provvedono gli organismi di valutazione della conformità accreditati in questo ambito ai sensi del Regolamento (CE) n. 765/2008.
 
La certificazione nella pratica: a che punto siamo?
 
A qualche mese dall’istituzionalizzazione della procedura, Accredia, l’ente nazionale designato dal governo, ha accreditato per lo svolgimento della certificazione tre organismi: Bureau Veritas Italia, RINA Services e DNV Business Assurance Italy. Altri enti sono in fase di accreditamento. Molti di questi avevano brevettato e già applicavano un proprio protocollo per la certificazione della parità di genere ancor prima dell’entrata in vigore della normativa, ma con la definizione delle Linee guida UNI, sono stati finalmente introdotti parametri di riferimento comuni e un certificato riconoscibile a livello nazionale. Restano tuttavia indicatori che ancora non compaiono nella Prassi attuale e che pure possono contribuire a fotografare la condizione reale della popolazione femminile in azienda, ben oltre i documenti di policy o i contratti collettivi, come il grado di disagio e la percezione della propria sicurezza sul luogo di lavoro e nei percorsi per raggiungerlo o la presenza di criteri di parità di genere nei processi di selezione dei fornitori. Si tratta di aspetti che Azzurra Rinaldi, Direttrice della School of Gender Economics presso l’Università Unitelma Sapienza e coinvolta da anni nella conduzione di processi di certificazione insieme a RINA Services, reputa indispensabile integrare.
 
Da un confronto con l’economista, sono emersi altresì alcuni rilievi interessanti sulla morfologia delle realtà che si certificano. Sono soprattutto le medie e grandi aziende anche multinazionali, dotate di risorse significative, a chiedere e ottenere la certificazione di genere: uno squilibrio che, a dire il vero, il PNRR intende risolvere, avendo l’obiettivo di raggiungere, entro giugno 2026, almeno 1.800 aziende certificate, di cui 450 piccole e medie imprese e 1.000 che beneficeranno di assistenza tecnica mirata. Solo il tempo ci consentirà di verificare se gli incentivi contributivi e i vantaggi premiali sopra menzionati, nonché i finanziamenti utilizzabili per il conseguimento del certificato, basteranno a incoraggiare e sostenere anche le piccole e medie imprese in questo percorso.
 
Allo stato attuale, inoltre, alla richiesta di certificazione, non sempre seguono comportamenti coerenti e univoci da parte di tutte le realtà interessate: secondo Rinaldi, c’è chi si prepara scrupolosamente al processo di assessment, contando sulle competenze del personale interno ma anche su consulenti esterni, e c’è chi invece non si preoccupa di adeguarsi anche solo ai requisiti minimi. Complessivamente, in un Paese che è ultimo in Europa nella classifica sull’uguaglianza di genere nel settore lavoro, elaborata dallo European Institute for Gender Equality, non stupisce riscontrare uno scarso grado di consapevolezza e sensibilità al tema tra le aziende italiane: lacuna che non lascia immune nemmeno il management di alcuni grandi gruppi multinazionali. E anche gli audit di follow-up, per valutare l’implementazione delle azioni di miglioramento, a 6 o 12 mesi di distanza dalla prima procedura di assessment, non sempre riescono a rilevare i progressi attesi.
 
Per quanto riguarda poi la rappresentanza dei lavoratori, nonostante alcune pratiche contrattuali positive quantomeno negli ambiti del sostegno alla genitorialità e alla cura dei familiari, rilevate dalla nostra banca dati FareContrattazione, il suo coinvolgimento nell’ambito della parità di genere risulta difficilmente percettibile a chi, come Azzurra Rinaldi, gestisce le procedure di certificazione. Tuttavia, proprio grazie al Dpcm del 29 aprile 2022, alle rappresentanze sindacali aziendali è oggi attribuito un ruolo importante nel controllo e nella verifica del rispetto dei requisiti minimi necessari al mantenimento della certificazione, attraverso il diritto a ricevere un’informativa annuale da parte dell’azienda, che rifletta il grado di adeguamento alle Prassi UNI, nonché a segnalare all’ente certificatore eventuali anomalie o criticità.
 
È indubbio quindi che il governo italiano abbia recentemente compiuto passi avanti nel tentativo di avvicinare il Paese all’obiettivo della parità di genere, divenuto ormai prioritario a livello comunitario e internazionale (come dimostrano la Strategia dell’UE per la Parità di Genere 2020-2025 e l’Agenda ONU 2030 sullo Sviluppo Sostenibile nel suo Obiettivo 5), e suscettibile di generare effetti positivi non soltanto dal punto di vista del benessere e della giustizia sociale ma anche in termini di competitività e performance. Tuttavia, per orientare il comportamento delle organizzazioni verso una reale parità retributiva e di sviluppo di carriera, anche incrementando le possibilità di cura dei familiari offerte ai lavoratori padri e contrastando pratiche discriminatorie del personale femminile nei processi di selezione e gestione delle risorse umane, è più che mai necessario un consistente ed esteso sforzo culturale. È proprio da qui, infatti, che originano gran parte degli stereotipi e degli orientamenti che nei luoghi di lavoro spesso bloccano le donne in posizioni subalterne e di servizio. Anche considerando il grande divario che ci separa dai Paesi più avanzati (Islanda, Finlandia e Norvegia in particolare, secondo il Global Gender Gap Report 2022), parti sociali, istituzioni, centri di ricerca e università in Italia sono chiamati ad intervenire in prima linea a sostegno di un’effettiva uguaglianza di genere.
 
Ilaria Armaroli

ADAPT Research Fellow

@ilaria_armaroli

 
Stefania Negri

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@StefaniaNegri6

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