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Bollettino ADAPT 21 febbraio 2022, n. 7
L’obbligo di adottare «soluzioni ragionevoli» negli ambienti di lavoro (art. 5, Dir. 2000/78/CE) implica che «un lavoratore, compreso quello che svolge un tirocinio post-assunzione, il quale, a causa della sua disabilità, sia dichiarato inidoneo a esercitare le funzioni essenziali del posto da lui occupato, sia destinato a un altro posto per il quale dispone delle competenze, delle capacità e delle disponibilità richieste, a meno che tale misura non imponga al datore di lavoro un onere sproporzionato».
Così, con sentenza 10 febbraio 2022, causa C-485/20, la Corte di Giustizia dell’Unione europea afferma un importante principio di diritto, che risolve una questione di compatibilità tra l’ordinamento belga e la normativa europea sulla «parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», nell’ambito di una controversia avente a oggetto il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione. L’onere di introdurre adattamenti organizzativi nei contesti di impiego, volto a garantire il diritto al lavoro alle persone con disabilità, opera, dunque, in favore di qualsiasi lavoratore (sia dipendente, sia autonomo, ma pure “tirocinante”1) e può sostanziarsi anche nell’adibizione in posizioni diverse da quelle previste al momento dell’assunzione.
Di tal guisa, i giudici di Lussemburgo chiariscono come, in ossequio a quanto previsto dalla direttiva, ogni prestatore divenuto inidoneo allo svolgimento delle attività contrattualmente convenute debba beneficiare della riassegnazione ad altre mansioni compatibili con la propria (residua) capacità lavorativa, ferma tuttavia la sopportabilità economica dei costi necessari per siffatto adattamento. La tensione è, quindi, verso soluzioni organizzative che non impongano al datore un «onere finanziario sproporzionato», rispetto alle dimensioni e alle risorse dell’impresa.
Il caso
Nel novembre 2016, la società che gestisce il personale delle ferrovie belghe assumeva un agente di manutenzione specializzato, che iniziava così il suo tirocinio presso l’ente incaricato di sovraintendere il corretto funzionamento delle infrastrutture ferroviarie. L’anno successivo, allo stesso lavoratore veniva diagnosticata una patologia cardiaca, che richiedeva l’impianto di un pacemaker sensibile ai campi elettromagnetici emessi dalle linee ferroviarie.
Per tale ragione, il Service public fédéral Sécurité sociale riconosceva il prestatore quale persona con disabilità ex legge 10 maggio 2007 (di recepimento, nel diritto belga, della Dir. 2000/78/CE). In seguito, acquisita la sopravvenuta inidoneità a esercitare le mansioni per le quali era stato assunto e in attesa che intervenisse il provvedimento di licenziamento, il manutentore specializzato veniva temporaneamente adibito al ruolo di magazziniere, in quanto conciliabile con il suo stato di salute (e con la sua ridotta capacità al lavoro).
Avverso tale decisione, il lavoratore proponeva ricorso presso la Commission d’appel de la médecine de l’administration, invocando l’obbligo, gravante sulla parte datoriale, di adattare l’ambiente di lavoro in funzione delle proprie esigenze di persona con disabilità, anziché provvedere all’atto risolutivo. I giudici del gravame, però, confermavano l’incompatibilità del ricorrente con lo svolgimento delle funzioni contrattuali e, sull’assunto per cui lo statuto della società e il regolamento applicabile al personale delle ferrovie belghe prevedono che i tirocinanti divenuti inidonei alla mansione – diversamente dagli agenti nominati in via definitiva – non beneficiano della ricollocazione all’interno dell’organizzazione, nel settembre 2018, il datore comunicava al prestatore l’impossibilità di proseguire il rapporto. Oltre al licenziamento, si prevedeva, altresì, il divieto di assunzione, per un periodo di cinque anni, nel livello in cui era stato impiegato nelle ferrovie belghe.
Sicché, al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso intimato da parte datoriale, il lavoratore adiva il Conseil d’Ètat, evidenziando, da un lato, come egli avrebbe potuto essere riassegnato nella posizione provvisoriamente ricoperta e, dall’altro, come tale adattamento costituisse una soluzione ragionevole che il datore è tenuto a prevedere in forza della legge del 10 maggio 2007.
Considerata l’assenza di uniformità della giurisprudenza nazionale in materia, il Consiglio sospendeva il procedimento e sottoponeva alla CGUE la questione pregiudiziale relativa alla possibilità di assegnare un altro posto di lavoro alla persona che, a causa della sopravvenuta disabilità, non è più in grado di occupare la posizione cui era stata originariamente destinata2.
L’obbligo (e il perimetro) delle soluzioni ragionevoli
Le soluzioni ragionevoli che, come invocato dal ricorrente, il datore di lavoro avrebbe dovuto vagliare prima di (rectius, anziché) intimare il licenziamento trovano origine normativa nell’art. 5, Dir. 2000/78/CE. In particolare, il modello di giustizia sociale promosso dal legislatore europeo viene tradotto, sul piano pratico, nell’obbligo – gravante su tutti i datori – di introdurre adattamenti idonei ad assicurare l’accesso al (e la permanenza nel) lavoro in ambienti confacenti alle «esigenze delle situazioni concrete» delle persone con disabilità.
Al fine di rendere effettiva la «parità di trattamento», si impone, dunque, di accogliere soluzioni ragionevoli nelle organizzazioni, ossia «misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap». Si tratta di modificare lo status quo per «consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione» in condizioni di uguaglianza con gli altri.
Come chiarito anche dalla CGUE, l’elenco di azioni contenuto nel Considerando 20 della direttiva è (espressamente) esemplificativo e non esaurisce il novero di comportamenti attivi che il datore è tenuto a introdurre per garantire il diritto al lavoro delle persone con disabilità3. Pertanto, nel caso di sopravvenuta (e definitiva) inidoneità alla mansione, la Corte rileva come non possa escludersi che l’assegnazione del lavoratore a una posizione lavorativa diversa da quella originariamente ricoperta rappresenti una misura appropriata nell’ambito delle soluzioni ragionevoli, in quanto idonea ad abbattere «le barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone con disabilità alla vita professionale, su base di uguaglianza con gli altri».
Come anticipato, l’unica esimente per la parte datoriale è che tale soluzione non comporti un «onere finanziario eccessivo o sproporzionato». In questa direzione, gli stessi giudici di Lussemburgo precisano che, in ogni caso, la possibilità di ricollocare la persona con disabilità in un altro posto di lavoro confacente alle sue esigenze esiste solo in presenza di almeno un posto vacante che il prestatore interessato è in grado di occupare.
La dimensione “relazionale” della disabilità
La controversia poc’anzi presentata invita a riflettere sulla concezione della disabilità, che oggi non possiede più mero carattere medico, ma financo relazionale, e considera cioè i processi di esclusione determinati dalle barriere che ostano all’inclusione sociale.
In questi termini, tale caratteristica personale non può essere intesa esclusivamente quale sinonimo di menomazione, ma deve essere valutata in funzione del rapporto con l’ambiente (di lavoro) circostante4. Non sussiste, allora, disabilità se le condizioni del contesto consentono di svolgere le normali attività, senza subire penalizzazioni a causa del proprio handicap; al contrario, vi è disabilità quando le barriere ivi presenti limitano l’accessibilità e, quindi, la piena realizzazione della persona nelle molteplici dimensioni della vita quotidiana.
Nel caso di specie, non è contestabile (né è stato contestato) che la causa del provvedimento di inidoneità fisica del lavoratore debba essere qualificata come «disabilità» ai sensi della legge del 10 maggio 2007. Infatti, l’installazione di un pacemaker, per far fronte alla patologia cardiaca del ricorrente, ha reso impossibile l’esecuzione delle funzioni di manutentore specializzato, le quali, come detto, comportano un’esposizione (incompatibile con lo stesso apparecchio) ai campi elettromagnetici.
Parimenti, il fatto che il prestatore non fosse un agente definitivamente assunto – né al momento della diagnosi della patologia, né alla data di intimazione del licenziamento – non impedisce che il suo profilo professionale rientri nell’ambito soggettivo della Dir. 2000/78/CE. Secondo la CGUE, infatti, il campo di applicazione della direttiva (v. supra, nota n. 1) è sufficientemente ampio per potervi ricomprendere anche la situazione di un lavoratore che svolge un periodo di tirocinio formativo conseguente alla sua assunzione da parte del datore di lavoro. La dimensione “relazionale” della disabilità esula, infatti, dalla qualificazione giuridica del rapporto, coinvolgendo solamente l’interazione (negativa) tra le menomazioni della persona e le caratteristiche dell’ambiente ove questa è collocata.
Il giudice del rinvio ne deduce che il provvedimento di licenziamento adottato nei confronti del “lavoratore-tirocinante” può integrare una discriminazione, ma solamente ove si dimostri che la società si sia rifiutata di porre in essere le soluzioni ragionevolmente richieste.
Come misurare la ragionevolezza della soluzione?
Il dato normativo in materia di soluzioni ragionevoli subordina il diritto della persona con disabilità a pretendere l’adeguamento organizzativo alla sostenibilità economica della relativa introduzione. Infatti, come puntualmente rammentato dalla CGUE, la Dir. 2000/78/CE non può obbligare un datore di lavoro a adottare provvedimenti che impongano un «onere finanziario sproporzionato», dovendo desumersi che la ragionevolezza della soluzione sia parametrata all’entità della spesa necessaria per predisporla.
Invero, tale requisito prefigura una imprescindibile valutazione di fattibilità della soluzione medesima, rispetto alle dimensioni e alle risorse dell’impresa, stante le esigenze di continuità aziendale e di mantenimento degli equilibri finanziari. A tal proposito, giova osservare come il Considerando 21 della direttiva statuisca che «per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi […] che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione […] e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni».
Se l’interesse del datore pare adeguatamente tutelato dal richiamo alla “non sproporzione” degli oneri, vi possono comunque essere circostanze di fatto che – anche in presenza di una spesa sostenibile per l’impresa – rendano la soluzione priva di equilibrio.
In tal guisa, si rende necessario un bilanciato contemperamento delle esigenze delle parti coinvolte: oltre alla stima dei costi e delle eventuali misure compensative predisposte a livello statuale, il giudizio sulla ragionevolezza della soluzione dovrà essere formulato ponderando, da un lato, l’interesse del prestatore divenuto inidoneo alle mansioni contrattuali al mantenimento di un lavoro compatibile con il suo stato di salute e, dall’altro, l’interesse del datore a garantirsi di una prestazione lavorativa che sia utile nel (e per) l’economicità dell’impresa5. In questo, occorrerà tenere conto anche dell’interesse degli altri lavoratori – eventualmente coinvolti dalla modifica dell’organizzazione – a non subire variazioni delle posizioni occupate6.
Ne deriva che potrà dirsi “ragionevole” qualsiasi provvedimento che consenta di preservare il posto del disabile, in un’attività che sia comunque proficua per l’organizzazione e che, allo stesso tempo, non imponga al datore – oltre che al personale coinvolto – un sacrificio eccedente quello che le dimensioni e le risorse dell’impresa consentono di sopportare. Di riflesso, laddove non comporti un onere sproporzionato, anche la ricollocazione del lavoratore (“tirocinante”) in mansioni conciliabili con la sua residua capacità al lavoro costituisce una misura ragionevolmente necessaria per assicurare il diritto al lavoro di tutti.
In conclusione, il principio di diritto affermato dalla CGUE è certamente coerente con quanto previsto dalla normativa italiana in materia di repêchage7 e si pone in stretta contiguità con quel filone giurisprudenziale che già richiedeva ai datori di lavoro di vagliare ogni misura utile al reimpiego del lavoratore – ivi compresa l’assegnazione a mansioni diverse, anche inferiori – prima di procedere al licenziamento per sopravvenuta inidoneità.
Scuola di Dottorato di ricerca in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena
@M_De_Falco
*Pubblicato anche su EQUAL – Il portale di diritto antidiscriminatorio dell’Università degli Studi di Udine
1 La CGUE ricorda come l’art. 3, Dir. 2000/78/CE (rubricato «Campo di applicazione») statuisca che la stessa si rivolge «a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, […] per quanto attiene: a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, e […] b) all’accesso a tutti tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali» nonché «c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento».
2 Al fine di assicurare l’omogeneità dell’applicazione del diritto europeo, l’art. 267 del TFUE attribuisce alla Corte di Giustizia la competenza a pronunciarsi, su richiesta di un organo giurisdizionale di uno Stato membro, sull’interpretazione del diritto dell’Unione. Il giudice nazionale, nel risolvere la controversia della quale è stato investito, dovrà conformarsi alla decisione della Corte.
3 Tra le soluzioni ragionevoli per le persone con disabilità certamente può essere annoverato anche il lavoro agile, come esposto qui, in commento all’art. 10 del Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile.
4 Sul punto, cfr. la definizione accolta dall’art. 1, c. 2, Conv. ONU «sui diritti delle persone con disabilità» del 2006, nella cui direzione deve essere interpretata anche la Dir. 2000/78/CE.
5 Invero, la dir. 2000/78/CE «non prescrive […] il mantenimento dell’occupazione […] di un individuo non competente, non capace o non disponibile a effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili» (Considerando 17).
6 Nel nostro ordinamento, si veda l’attuale formulazione dell’art. 2103 c.c. rispetto all’immutabilità in peius delle mansioni contrattualmente convenute.
7 L’art. 4, c. 4, L. n. 68/1999 stabilisce che l’infortunio e la malattia – quali cause di inabilità rispetto allo svolgimento dei compiti originariamente assegnati – «non costituiscono giustificato motivo di licenziamento», nel caso in cui il lavoratore possa essere adibito «a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori».