Nella normativa sul lavoro continua a svilupparsi un gioco di specchi deformanti in cui si scontrano le visioni arcaiche e quelle futurizzanti senza il coraggio, sia da parte dei tecnici che dei decisori, di accettare la realtà per poterla disciplinare; ma la mancanza di coraggio dei decisori politici può essere capita e scusata, dal momento che devono rispondere a un elettorato, che seguono non riuscendo a guidarlo, mentre i tecnici sono inescusabili nel loro non voler vedere la realtà.
La realtà dei fatti è semplice, volendo vederla: con il superamento del sistema organizzativo fordista-taylorista la subordinazione viene ad essere gradatamente annullata, nella sua dimensione tradizionale, e i rapporti, tutti i rapporti di lavoro, sfumano gradualmente in una diversa dimensione che possiamo chiamare, pur essendo consapevoli della ambiguità del termine, collaborazione e che, comprendendola bene, dovremmo cercare di disciplinare più efficacemente.
D’altronde, se è vero che la nostra organizzazione sociale è frutto di una storia ben nota e se è vero che la regolazione della medesima segue ancora delle logiche ideali nate, sviluppatesi e consacratesi in testi di sacri principi, che poi disciplinano anche le normative delle nazioni. Se è vero, peraltro, che ci sono ancora molte parti del mondo in cui questi principi e le regolazioni conseguenti sono ben lontani dall’essere adottati e applicati.
Ma, se è anche vero che la evoluzione della globalizzazione rende tutti i percorsi, non soltanto quelli dei traffici mercantili, ma anche quelli del mercato dei diritti, più concitati. Forse è arrivato il momento di aggiornare quei principi e le regolazioni conseguenti, accettando una loro qualche relativizzazione, che attenui il rigore degli enunciati storici ma, nello stesso tempo, riesca a realizzare una loro concreta ed efficace applicazione.
Uno di questi enunciati è quello della indisponibilità del tipo contrattuale che, insieme a tutte le altre indisponibilità presenti nell’ambito del diritto del lavoro, potrebbe essere almeno relativizzata con qualche forma di assistenza al lavoratore da parte di soggetti pubblici o privati particolarmente qualificati. Perché si può considerare ormai pressoché scomparsa quella connotazione asimmetrica del rapporto di lavoro, che ha presieduto alla nascita del diritto del lavoro.
Mi riferisco, ovviamente, alla considerazione del lavoratore come parte debole, da proteggere, rispetto al datore di lavoro al quale si attribuisce, tradizionalmente, una tendenza genetica, per dir così, alla prevaricazione e al mancato rispetto dei diritti umani, prima ancora che civili e giuridici, del lavoratore. Mentre non si considera nemmeno l’idea che, pur essendoci ancora nipoti dei padroni delle ferriere, nella stragrande maggioranza i datori di lavoro siano corretti.
Non necessariamente per una qualche bontà d’animo né per un qualche timore di punizione, ma semplicemente per convenienza. Quella stessa convenienza che portò mister Ford ad aumentare la paga dei suoi dipendenti, affinché potessero comprare anche loro il model T, o di Adriano Olivetti, che vedeva nel suo comunitarismo, intriso per la verità di una superiore eticità, il modo migliore per stimolare la creatività della fabbrica.
Infatti, mentre taluni ancora si affannano, forse più per ragioni ideologiche o per convenienze politiche, a presidiare e a difendere la classica configurazione della subordinazione e della dipendenza, tanto da sviluppare ancora le concettualizzazioni di quasi-dipendenza, ovvero di dipendenza economica, la subordinazione è morta e la dipendenza non sta tanto bene.
Ovvero ad esempio, per quanto riguarda la dipendenza possiamo vedere, se guardiamo bene, che anche i grandi produttori di sistemi frenanti o di pneumatici sono economicamente dipendenti dai grandi produttori di automobili, perché di economicamente indipendente non c’è più nessuno, nel mondo economico in cui viviamo, salvo l’eventuale pastore errante nell’Asia.
Mentre la subordinazione, a cui sono legati i poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro, si è fatta evanescente e, pur non scomparendo, si è temperata in una dimensione di collaborazione, anche qui non per un qualche tipo di autocastrazione dell’imprenditore ma per una logica sintonia con i tempi in cui viviamo.
Nei quali è meglio per tutti “sfruttare”, usando volutamente una forma lessicale ampiamente demonizzata, non soltanto le braccia ma anche il cervello delle persone; sia perché è il cervello che muove le braccia sia, soprattutto, perché se si annette soddisfazione al lavoro da fare, si ottiene un lavoro maggiore e migliore. In altri termini potremmo dire che il lavoro, di fabbrica e non solo, si è democratizzato, o meglio, si è costituzionalizzato, nel senso che la monarchia imprenditoriale è divenuta una monarchia costituzionale.
Del resto non possiamo negare che questa dottrina e questa giurisprudenza, iperprotettive, tuttora largamente prevalenti, abbiano finito per non aiutare coloro che sembrava dovessero essere aiutati, come parti aprioristicamente deboli del rapporto di lavoro, anzi abbiano contribuito a rendere sempre più difficile il lavoro delle persone nell’ambito delle varie organizzazioni produttive, dall’uno e dall’altro lato.
Infatti, per quanto il postfordismo sia ancora più declamato che realizzato, la situazione complessiva della produzione di beni e servizi è talmente mutata, nel quadro della competizione internazionale globale e nell’ambito dello spazio giuridico europeo, da non consentire più di attardarsi in diatribe accademiche e in sottili distinguo, legati ad una lunga tradizione interpretativa del diritto positivo o, anche, del diritto vivente ormai soltanto nella mente di quanti vivono con il viso rivolto all’indietro.
Pertanto, mentre era giusto un approccio, come quello di Ichino, verso la riscrittura del diritto civile relativo al lavoro, era auspicabile che questa riscrittura fosse talmente chiara da non consentire più esercizi interpretativi arditi o, addirittura, spericolati. Così come sarebbe stato bene evitare esercizi mistificatori, come quello sulle collaborazioni coordinate e continuative o a progetto, che stiamo vedendo compiersi.
E, se anche non possiamo abbattere i tabù come si abbattono le statue degli autocrati dopo la loro scomparsa, naturale o non naturale, almeno potremmo cominciare a ridurre la loro incidenza sulla vita del lavoro e nel mercato del lavoro. Basta pensare a come le normative europee sulla difesa della concorrenza stanno cambiando il quadro dei rapporti tra le aziende e immaginare che questo fatto, lungi dall’essere riferibile soltanto a dimensioni macroscopiche, possa incidere proprio su tutta una serie di rapporti commerciali, che quanti si occupano di diritto del lavoro sono abituati a vedere come rapporti appunto di lavoro subordinato, parasubordinato, autonomo, ecc.
Allora, se ci si aprisse a questo nuovo fronte di riflessione e di studio, si potrebbe forse considerare giunto il tempo di cominciare a chiudere i vecchi fronti. Così, sin tanto che il tipo contrattuale resterà non a disposizione delle parti, tutta la diatriba sulla individuazione del tipo di ciascun singolo rapporto di lavoro, legata alle diversificazioni del trattamento contributivo, previdenziale, gestionale, tra il tipo base, per dir così, del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e tutti gli altri, il problema potrebbe essere risolto da una equiparazione sostanziale.
Infatti sappiamo bene che il rapporto di lavoro subordinato, anche avendo risolto il problema tra property e liability rule – secondo la definizione di Ichino -, continuerà ad essere sfavorito, malgrado tutti gli incentivi, necessariamente temporanei, sia per la volatilità del lavoro delle aziende, che per il costo contributivo del rapporto stesso.
Pertanto, almeno come enunciazione di principio da verificare nei tempi e nei modi attuazione, potrebbe bastare mettere sullo stesso piano tutti i rapporti contrattuali, afferenti in qualunque modo al lavoro, per non doversi più preoccupare del tipo contrattuale.
Mettere sullo stesso piano tutti quanti lavorano, a qualunque titolo, vorrebbe dire una contribuzione previdenziale uguale per tutti come, del resto, prospettava anche Treu, e un analogo trattamento economico, sia nel rapporto di lavoro/collaborazione che nel mercato del lavoro, con analoghe prestazioni previdenziali e di servizio, quando il rapporto contrattuale si scioglie. Una specie di servizio di cittadinanza piuttosto che, o oltre che, un reddito di cittadinanza.
Può sembrare un’idea semplicistica e, contemporaneamente, di difficile concretizzazione nella condizione in cui ci troviamo attualmente, ma può essere un’idea semplice che potrebbe effettivamente cambiare il quadro di riferimento del lavoro, oltre che del diritto del lavoro. Anche tenendo conto che le persone normali non vivono per litigare, ma per stare tranquille e i rapporti contrattuali non vengono attivati per essere sciolti, ma per fungere a un qualche scopo.
Così dovremmo smettere di guardare al lavoro delle persone e al diritto che lo regola sempre nell’ottica del contenzioso, che pure va considerato possibile e risolto anche con schemi di risoluzione dei conflitti alternativi, per non correre il rischio di non vedere più la vita vera e di fare come se fossimo degli anatomopatologi, mentre il lavoro è sempre vivo e vegeto e ha bisogno soltanto di essere liberato.
ADAPT Professional Fellow
@occamorazi