Nel Consiglio dei Ministri del 20 febbraio, vi è stata l’approvazione, in esame preliminare, del decreto legislativo sulla conciliazione vita-lavoro, uno degli assi portanti del Jobs Act.
Il provvedimento contiene la disciplina di dettaglio della delega su questa materia, di cui alla legge 10 dicembre 2014, n. 183, confermandone l’impianto, che colloca gli interventi di work-life balance, prevalentemente nell’ambito delle politiche di pari opportunità. Vi è, infatti, uno spostamento di baricentro rispetto alla Riforma Fornero, in cui c’era, seppur “timida”, una prima apertura al riequilibrio di genere nei carichi di cura, attraverso l’introduzione di un congedo di paternità obbligatorio. Infatti, nel Jobs Act al centro torna la tutela della maternità, nell’ottica di favorire per tale via l’occupazione femminile.
Tale ratio, emerge chiaramente all’art. 1, inerente oggetto e finalità del decreto, il quale dispone che sono introdotte misure sperimentali volte a tutelare la maternità delle lavoratrici (non anche appunto la paternità, o in generale la genitorialità) e a favorire (qui il riferimento a tutti i lavoratori) le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Il punto è, però, che intervenire solo sulla tutela della maternità, senza adeguate misure volte al riequilibrio di genere nei carichi di cura, è difficile possa assurgere a volano per l’innalzamento dei tassi di occupazione femminile e di permanenza delle stesse nel mercato del lavoro, intervenendo al contempo anche sui fenomeni di segregazione verticale e orizzontale, cui sono soggette.
Premesso ciò, si può ora procedere a una breve sintesi di quanto contenuto nel decreto. Il provvedimento in commento, attuando i criteri direttivi della legge delega (si veda per un approfondimento sulla stessa, l’analisi di L. Calafà, La delega alla conciliazione dei genitori al tempo dell’austerity, in F. Carinci (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi-Atto II, in ADAPT Labour Studies e-Book series, 2014, n. 32), interviene soprattutto novellando il T.U. del 26 marzo 2001, n. 51, che costituisce, come noto, la normativa cardine in materia di tutela della maternità e della paternità.
Il provvedimento dispone, innanzitutto, sulla fruizione del congedo obbligatorio di maternità, in casi particolari, quali il parto prematuro o il ricovero del neonato. In riferimento alla prima fattispecie, i giorni non goduti di astensione obbligatoria prima del parto sono aggiunti al periodo di congedo di maternità post-partum, anche qualora la somma dei due periodi superi il limite complessivo dei 5 mesi. Nell’ipotesi invece di ricovero del neonato, il decreto prevede la possibilità di fruire di una sospensione del congedo di maternità, in presenza di idonea certificazione medica attestante il buono stato di salute della madre.
Si ha, poi, un’estensione del congedo parentale (anche in caso di adozione e affidamento con decorrenza in tali ipotesi dall’ingresso del minore nel nucleo famigliare) dagli attuali 8 anni di vita del bambino a 12 anni. Nello specifico quello retribuito solo parzialmente (30%) viene elevato dai 3 anni di vita del minore ai 6; mentre quello non retribuito dai sei 6 ai 12 anni.
Per quanto attiene al congedo parentale su base oraria, viene disposto che in caso di mancata regolamentazione, da parte della contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, delle modalità di fruizione, ciascun genitore può scegliere tra la fruizione giornaliera e quella oraria. La prima è consentita in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo parentale. E’ esclusa la cumulabilità della fruizione oraria del congedo parentale con permessi o riposi di cui al presente decreto legislativo.
In recepimento degli indirizzi giurisprudenziali sul punto, si ha l’introduzione di norme poste alla tutela della maternità e della paternità in caso di adozioni e affidamenti, che estendono a tali ipotesi quelle già previste per i genitori naturali. Tra queste vi è l’aggiunta della lettera b-bis) all’art. 53, comma 2, prevedendo che tra le ipotesi di lavoratori e lavoratrici non obbligati a prestare lavoro notturno, vi sono anche «la lavoratrice madre adottiva o affidataria di un minore, nei primi tre anni dall’ingresso del minore in famiglia, e comunque non oltre il dodicesimo anno di età o, in alternativa ed alle stesse condizioni, il lavoratore padre adottivo o affidatario convivente con la stessa».
Il decreto inoltre estende il congedo di paternità nei casi in cui la madre sia impossibilitata a fruirne per motivi naturali o contingenti a tutte le categorie di lavoratori.
Tracciato, in breve, il quadro delle novelle misure propriamente volte alla tutela della maternità e della paternità, si passa a una breve panoramica degli interventi rientranti nella macro categoria conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Per favorire l’utilizzo del telelavoro per motivi legati a esigenze di cure parentali in forza di accordi collettivi, viene previsto un incentivo normativo consistente nell’esclusione dei lavoratori ammessi a tale misura dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti.
La delega invece che un riferimento esclusivo al telelavoro, avrebbe potuto contenere un’apertura maggiore, facendo riferimento in generale a misure di flessibilità organizzativa, in modo che all’interno potessero esservi ricomprese anche ipotesi, quali lo smart working o lavoro agile, che sebbene non ancora normate, si stanno affermando a livello aziendale, incentivando per tale via l’attuazione di soluzioni innovative, in ottica sussidiaria e migliorativa.
A ulteriore conferma di una particolare focus della delega incentrato su politiche di genere, anche l’art. 23 che prevede un congedo per le donne vittime di violenza e inserite in percorsi di protezione debitamente certificati.
Nello specifico viene introdotta la possibilità per queste lavoratrici di astenersi dal lavoro, per un massimo di tre mesi, per motivi legati a tali percorsi, garantendo l’intera retribuzione, la maturazione delle ferie e degli altri istituti connessi. Viene anche introdotto il diritto di trasformare il rapporto di lavoro, da tempo pieno a tempo parziale, a richiesta della lavoratrice. Le collaboratrici a progetto hanno diritto alla sospensione del rapporto contrattuale per analoghi motivi sempre per un massimo di tre mesi.
Le misure sin qui citate sono attuate in via sperimentale solo per il 2015, mentre si dispone una sperimentazione triennale (2016-2018), per la previsione secondo cui una quota pari al 10% del Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi per incentivare la contrattazione di secondo livello è destinata alla promozione della conciliazione vita professionale-vita privata, in virtù dei criteri e delle modalità di utilizzo che verranno definiti con decreto ministeriale, il quale conterrà anche ulteriori azioni e modalità di intervento in materia, pure attraverso l’adozione di linee guida e modelli finalizzati a favorire la stipula di contratti collettivi aziendali.
La scelta di far riferimento a una “conciliazione tra vita professionale-vita privata”, esprime rispetto al più tranchant “conciliazione vita-lavoro”, la forte interconnessione tra le due sfere, in linea con il mercato del lavoro attuale, in cui le nuove tecnologie determinano sinergie nemmeno immaginabili nel passato, ma soprattutto con il dettato costituzionale in cui il lavoro è uno degli ambiti fondamentali per lo sviluppo della persona.
Si attendono i prossimi sviluppi per verificare se tale scelta definitoria si porrà come una bussola orientando soluzioni particolarmente innovative, in grado di generare un valore, che va al di là del rapporto privatistico, per divenire uno dei fattori in grado di contribuire alla crescita economico-sociale del paese, o rimarrà invece niente più che un semplice sinonimo.
Scuola internazionale di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@RositaZucaro