La contesa “politica” tra Cgil e Cisl e una guerra di posizione che non aiuta a superare lo stallo
Interventi ADAPT, Relazioni industriali
| di Michele Tiraboschi
Bollettino ADAPT 24 febbraio 2025, n. 8
Davvero le profonde divisioni tra Cgil e Cisl, oggi, non hanno altra spiegazione se non l’ottusa volontà degli apparati e delle burocrazie della rappresentanza di auto conservarsi?
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.Questa tesi – rilanciata in un recente articolo apparso sul Corriere della Sera (R. Querzé, A chi serve il sindacato debole?, in Corriere della Sera, 17 febbraio 2025) e implicitamente fatta propria anche da un autorevole analista per spiegare i rispettivi veti di Cgil e Cisl sulle proposte di legge in materia di partecipazione dei lavoratori e salario minimo (M. Leonardi, L’inspiegabile divisione tra Cgil e Cisl, in Il Foglio del 24 gennaio 2025) – per quanto appagante per una opinione che non si appassiona più ai grandi problemi del lavoro, fornisce una visione troppo cinica e lontana dalla realtà del ruolo storico del sindacalismo e della natura di sindacati gloriosi come la Cgil e la Cisl. Una rappresentazione banalizzante, come quella che imputa la incomunicabilità tra Cgil e Cisl a una presunta incompatibilità umana dei rispettivi leader, e che sembra non conoscere o far finta di non conoscere, al di là del motivo contingente della contesa, due storie radicate e due tradizioni importanti, codificate negli Statuti e nelle relative scelte organizzative, del modo di intendere il sindacato, il rapporto tra sindacato e soci/lavoratori e il rapporto tra sindacato e politica nel nostro Paese. Una piatta omologazione delle diversità verso non si sa cosa che è poi la premessa per la fine (e non certo la valorizzazione) dei corpi intermedi che invece dovrebbero essere genuina espressione di una società “aperta” perché capace di coniugare, in antitesi al pensiero unico o alle ideologie totalizzanti, più valori e più visioni del mondo in modo plurale.
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Che esista un problema di come conciliare queste due opposte visioni del sindacato e del mondo nessuno lo nega, ma è un altro discorso (rispetto alla analisi delle ragioni di una contrapposizione aspra per quanto difficile da comprendere o accettare dall’esterno) che non può comunque prescindere dai dati di realtà.
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Ora, che le divisioni tra Cgil e Cisl facciano male ai lavoratori, come recentemente sostenuto da Carlo Trigilia (L’unità sindacale è vitale per un’alternativa alle destre populiste, in Domani del 18 febbraio 2025) è fuori discussione. Una analisi costruttiva e non partigiana non può però partire dal presupposto, presentato come un dato di fatto, che uno dei due attori della contesa abbia tutte le ragioni e l’altro tutti i torti. Ciò che più colpisce, di questa contorta e confusa analisi, è però la totale distorsione del concetto di concertazione presente nel dibattito pubblico. Come se lo “scambio politico” tra sindacato e governo non riguardasse risorse materiali o simboliche o la concessione di spazi di autonomia o deleghe potere, ma, banalmente, il fiancheggiare questo o quel partito politico. Se questa è la chiave di lettura dello stallo nel sindacato italiano allora è chiaro a priori, e in termini del tutto soggettivi, chi sono i “cattivi” e chi sono invece i “buoni” in questa vicenda di accuse e recriminazioni, ma questo non certo pensando agli interessi dei lavoratori in carne e ossa quanto al vantaggio garantito da questo o quel sindacato a un preciso partito politico o a una precisa coalizione.
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La scomparsa, tra opinionisti e giornalisti, di una robusta cultura storica e di relazioni industriali spiega forse il punto a cui siamo arrivati e l’assenza di solide sponde intellettuali terze che aiutino gli attori del sistema a fare passi in avanti e terminare questa sterile guerra di posizione.
Che si parli di partecipazione dei lavoratori, salario minimo, concertazione, nel poco spazio che giornali e televisioni concedono oggi ai grandi temi del lavoro, è tuttavia solo l’antipasto di quanto vedremo, con maggiore intensità e spazio nel dibattito pubblico, in prossimità del referendum della Cgil contro il Jobs Act e qualche segnale lo abbiamo già visto con contributi in ordine sparso che stentano a comprendere il ruolo essenzialmente “politico” del sindacato quale che sia poi la linea tenuta dalla singola confederazione in termini di autonomia ovvero di organicità rispetto ai partiti politici.
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In tutto questo è comunque decisamente paradossale la posizione di chiedere al sindacato di tornare a fare il proprio mestiere – e dunque di smettere di “fare politica” – quando premessa e conclusione del ragionamento (vedi per esempio Nannicini, Le tensioni sul Jobs Act e l’autogol della Cgil, in La Stampa del 28 gennaio 2025) hanno come obiettivo sempre quello di “confermare” una precisa “collocazione politica” del sindacato (anche quello che per Statuto dichiara “l’assoluta autonomia di fronte allo Stato, ai governi e ai partiti”) rispetto agli opposti schieramenti. Il dato di realtà – una profonda spaccatura del sindacato confederale che nasce ben prima del referendum sul Jobs Act e della iniziativa di legge sulla partecipazione – non entra in questo schema di ragionamento “politico” e non interessa in una società che, pur richiamando ritualmente gli articoli 1 e 3 della nostra Costituzione, ha smesso da tempo di fare i conti con la funzione dei corpi intermedi e con la cultura del lavoro.
Professore Ordinario di diritto del lavoro
Università di Modena e Reggio Emilia
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