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Bollettino ADAPT 29 novembre 2021, n. 42
Dagli anni Novanta e in maniera più decisa, in seguito alla crisi economica e finanziaria del 2008, il decentramento della contrattazione collettiva è stato promosso in Italia, come peraltro in diversi Paesi europei, allo scopo di aiutare le aziende a competere in mercati sempre più complessi e globalizzati. Come è noto e come è stato ricordato di recente (M. Tiraboschi, Tra due crisi: tendenze di un decennio di contrattazione, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2021, n. 1, 143-173), fu addirittura la Banca Centrale Europea, in una lettera indirizzata all’allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi nell’agosto del 2011, a sollecitare una riforma della contrattazione collettiva nel nostro Paese, nella direzione di permettere agli accordi a livello di impresa di adattare salari e condizioni di lavoro alle specifiche esigenze aziendali, nonché di accrescere la rilevanza di queste intese rispetto agli altri livelli di contrattazione. Coerentemente, il secondo livello negoziale, già riconosciuto istituzionalmente nel Protocollo Giugni del 1993, veniva in quegli anni ancor più incoraggiato attraverso l’introduzione di incentivi fiscali per la contrattazione decentrata di schemi retributivi variabili, nonché con il sostegno alla contrattazione cd. di prossimità (ex Art. 8 L. 148/2011), abilitata a derogare, pur nel rispetto di alcuni limiti e condizioni, ai contratti collettivi nazionali di settore e alla legislazione. Nello stesso decennio, anche l’ordinamento intersindacale promuoveva un processo di decentramento organizzato, consentendo alla contrattazione di secondo livello di raggiungere intese modificative anche in senso peggiorativo di alcuni standard settoriali, purché quegli stessi accordi venissero approvati dalle organizzazioni sindacali di categoria. Così, per la regolazione pattizia degli assetti della contrattazione collettiva, in modo inedito veniva affermato il principio della deroga accanto a quelli tradizionalmente in uso della delega e del ne bis in idem. E si delineava quindi un cambiamento significativo nel sistema italiano di relazioni industriali.
Dopo oltre dieci anni dall’adozione di quei provvedimenti, i tempi appaiono oggi maturi per verificare se e in che misura il modello di decentramento organizzato, delineato dalle parti sociali negli accordi interconfederali e nei contratti nazionali di settore, sia applicato anche a livello aziendale. Una valutazione di questo tipo risulta particolarmente importante in ragione degli effetti che i sistemi di contrattazione collettiva possono avere sulla produttività e sul mercato del lavoro, tanto più alla luce dei cambiamenti strutturali (ambientali, tecnologici e demografici) che stanno investendo i processi di produzione e organizzazione del lavoro su scala planetaria. L’occasione per condurre tale approfondimento ci è stata offerta dal progetto di ricerca CODEBAR (Comparisons in Decentralised Bargaining: Towards New Relations between Trade Unions and Works Councils?), avviato nel 2020 con il sostegno finanziario della Commissione Europea e condotto da un partenariato internazionale di cui fa parte anche ADAPT, sotto la guida dell’Università di Amsterdam. Oltre alla rassegna documentale e all’analisi dei contenuti delle principali disposizioni legali, dei contratti collettivi e dalla giurisprudenza sul tema, che sono servite a delineare lo stato dell’arte sullo sviluppo della contrattazione decentrata nel nostro Paese e il relativo dibattito dottrinale, il rapporto prodotto sul contesto italiano ha implicato anche analisi di caso settoriali, rispettivamente sui sistemi contrattuali del metalmeccanico, dell’elettrico e della distribuzione cooperativa. Per ogni settore, è stato inoltre condotto un caso studio aziendale, attraverso interviste semi-strutturate a rappresentanti di impresa, rappresentanti dei lavoratori e sindacalisti territoriali e/o nazionali operanti nelle realtà considerate.
Due opposti scenari di contrattazione collettiva
Tra i risultati preliminari della ricerca documentale e delle analisi di caso, emerge uno scenario negoziale particolarmente frammentato. Benché infatti l’articolazione multilivello della contrattazione collettiva abbia trovato espressione e conferma in tutti i principali contratti collettivi nazionali fino ad oggi, il grado e l’estensione della sua effettiva implementazione variano in relazione al settore analizzato e soprattutto, alla dimensione d’impresa. In questo senso, sembrerebbe possibile, per il nostro Paese, parlare non tanto di un sistema di contrattazione collettiva quanto di almeno due distinti scenari.
Il primo riguarda soprattutto le grandi imprese multi-localizzate, come quelle studiate nella presente ricerca, che occupano i livelli più alti delle catene del valore. Si tratta di realtà in larga parte sindacalizzate e coperte da un tipo di contrattazione decentrata che dimostra una sostanziale autonomia regolatoria su moltissimi istituti, anche a scapito di taluni criteri di coordinamento fissati nel CCNL. Non a caso, anche tra le aziende analizzate non sono mancate contrattazioni di incrementi retributivi fissi, benché in contrasto con la chiara delega dei CCNL alla regolazione, al livello decentrato, di soli schemi retributivi variabili e connessi a risultati di produttività ed efficienza. D’altro canto, come già emerso dai più recenti Rapporti ADAPT sulla contrattazione collettiva, non sempre la flessibilità normativa concessa dai CCNL alla contrattazione decentrata, è sfruttata dagli attori di secondo livello. In due dei casi aziendali analizzati, ad esempio, non sono state negoziate revisioni sperimentali ai sistemi di classificazione dei lavoratori, nonostante venissero sollecitate dai CCNL applicati. Queste forme di disallineamento tra la contrattazione nazionale e quella decentrata rispetto ai compiti e alle funzioni di quest’ultima, risultano indipendenti dal grado di autonomia negoziale formalmente concesso alle rappresentanze dei lavoratori in azienda, mantenendosi una sostanziale influenza dei sindacati di settore sulla contrattazione aziendale, anche nella sola realtà (quella dell’industria metalmeccanica) dove la RSU contratta con regolarità e in autonomia, a livello di singolo reparto, con il management. Il mancato seguito a livello decentrato di certe deleghe espresse dalla contrattazione nazionale non deve però mettere in ombra la comprovata capacità degli attori di livello aziendale di raggiungere esiti negoziali che in larga parte rispettano il principio del favor per i lavoratori pur contemperando anche alle esigenze di competitività aziendale. E non a caso, tra gli intervistati, c’è chi vede la contrattazione collettiva della propria azienda come potenzialmente autonoma rispetto a quella nazionale, per la gran parte di materie e istituti.
Di conseguenza, in questi contesti, sebbene sia formalmente in essere una struttura negoziale a due livelli, non solo un modello completamente decentrato appare fattibile ma in parte sembrerebbe già esistere, senza deroghe diffuse ai minimi di protezione per i lavoratori e in generale, con ricadute positive per entrambe le parti coinvolte. Per di più, nelle grandi aziende multi-localizzate, la distinzione fra primo e secondo livello di contrattazione probabilmente non permette di cogliere il punto: e ciò non solo in virtù della già citata capacità regolatoria delle parti a livello decentrato, ma anche considerata la tendenza a “centralizzare” la contrattazione collettiva aziendale. Al fine di fissare condizioni omogenee su tutto il perimetro nazionale, le direzioni aziendali tendono infatti a privilegiare negoziazioni che si svolgono a livello centrale o di gruppo e non nei singoli impianti o ambienti di lavoro, così riducendo la distanza “spaziale” fra i due tradizionali livelli di contrattazione e affievolendo le relative differenze in quanto ad attori coinvolti (con un ruolo prevalente svolto dai sindacati anche a livello aziendale) e contenuti trattati.
Con riferimento a questo primo scenario, quindi, come peraltro suggerito da alcuni degli stessi soggetti intervistati, gli accordi nazionali dovrebbero rappresentare cornici normative generali, orientandosi verso la definizione di mere linee-guida, che lasciano gli attori di livello decentrato sufficientemente liberi di scegliere le soluzioni negoziali più adatte a rispondere alle loro specifiche esigenze organizzative e produttive. Tutt’al più, in queste condizioni, il CCNL potrebbe intervenire inserendo procedure obbligatorie effettive per il trasferimento di informazioni, conoscenze e competenze da parte degli attori coinvolti a livello nazionale nei confronti di quelli impegnati presso le singole aziende: questo, sia per prevenire seriamente la violazione di norme del contratto nazionale, che per meglio promuovere il raggiungimento di quegli obiettivi di competitività e innovatività che storicamente sono stati associati allo sviluppo della contrattazione decentrata. Sembra del resto muovere in questa direzione la scelta recente del CCNL Chimico-farmaceutico di smarcarsi dalla mera elencazione dei temi delegati alla contrattazione aziendale, introducendo un’originale distinzione tra ambiti su cui il secondo livello ha “necessità” di agire e ambiti su cui vi è “opportunità” di farlo. Come documentato nel VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia (2020, pp. 207-261), l’ultimo rinnovo del CCNL del settore ha anche predisposto linee guida in tema di conciliazione vita-lavoro, welfare, formazione e pari opportunità, per orientare, senza invadere, l’azione delle parti a livello decentrato. La qualificazione di queste ultime in ambito negoziale è inoltre promossa da programmi formativi organizzati a livello locale dalle associazioni datoriali e sindacali di settore.
Il secondo scenario emerso dalla nostra ricerca riguarda, invece, tutte quelle realtà di piccole o piccolissime dimensioni, solitamente posizionate nei gradini più bassi delle catene del valore, che, come rivelano i più recenti studi sul tema (es. S. Leonardi, M. C. Ambra, A. Ciarini, Italian collective bargaining at a turning point, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.INT – 139/2017), non sono coperte da forme di contrattazione decentrata né sembrano in grado di valorizzarne la flessibilità normativa per competere nel mondo globalizzato. Si tratta di aziende che cercano quindi di rendersi più competitive adottando soluzioni differenti. Fra queste, in un contesto istituzionale in cui manca un meccanismo automatico per l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi e si assiste alla moltiplicazione dei contratti nazionali di lavoro, si annovera anche l’applicazione dei contratti nazionali più convenienti economicamente, a prescindere che siano sottoscritti da sindacati operanti nel proprio settore di riferimento e/o appartenenti alle confederazioni maggiori. In questo genere di aziende, tende quindi ad applicarsi un modello contrattuale fortemente imperniato su un primo livello, che si rivela però sempre più perforato e indebolito.
In risposta ai “buchi” e alle falle del sistema nazionale di tutela, e quindi alla minaccia dei cd. contratti pirata, come pure alla “aziendalizzazione” caratteristica di alcuni nuovi contratti nazionali (che ricoprono perimetri settoriali ristretti, prima rientranti nell’ambito di applicazione di altri CCNL), è rintracciabile una tendenza verso la flessibilizzazione della struttura dei CCNL tradizionali. In questi, possono infatti essere disposti standard di trattamento differenziati per le nuove realtà d’impresa e le aziende più piccole: e ciò, nell’ottica di attrarle e mantenerle nel sistema contrattuale. In questo senso, si possono citare la ridefinizione del campo di applicazione del CCNL del settore elettrico, avvenuta in occasione dell’ultimo rinnovo del 2019, e la successiva sottoscrizione di una disciplina speciale per le aziende operanti in attività di efficienza energetica e nei servizi commerciali di assistenza ai clienti: si tratta di realtà in crescita nel settore, che erano state attirate, negli ultimi anni, dall’applicazione di CCNL afferenti, in via maggioritaria, ad altri comparti produttivi. Allo stesso modo, le previsioni inserite nei CCNL della metalmeccanica e della distribuzione, atte a consentire ai datori di lavoro l’applicazione unilaterale di alcune soluzioni di flessibilità organizzativa e dell’orario di lavoro, costituirebbero una risposta al mancato sviluppo della contrattazione decentrata in molte piccole aziende, e quindi la manifestazione di una tendenza di taluni CCNL a farsi carico di quelle funzioni di flessibilità e competitività, che originariamente erano state delegate al secondo livello di contrattazione.
L’autonomia regolatoria della contrattazione decentrata, soprattutto nelle grandi imprese, e le tendenze alla flessibilizzazione della struttura dei CCNL sembrano così riflettere la frammentazione crescente dei settori economici e dei processi produttivi in Italia. Questi ultimi appaiono infatti sempre più articolati in reti complesse, costituite da poche grandi aziende leader, solitamente sindacalizzate e coperte da contrattazione collettiva, che impongono le proprie condizioni commerciali a una schiera sempre più fitta e decentrata di fornitori, subfornitori, appaltatori e subappaltatori: più bassa la loro posizione nella catena del valore e più probabile la loro estraneità alla rappresentanza sindacale, alla contrattazione aziendale e addirittura al rispetto degli standard minimi di tutela fissati nei CCNL maggiormente rappresentativi. Specchio di questa condizione è anche il settore tessile, che pur esulando dal perimetro di questa ricerca europea, risulta essere, assieme al commercio, il settore più colpito dalla contrattazione pirata per ampiezza e intensità del fenomeno, come ben emerge dall’approfondimento condotto nel 2019 e riassunto all’interno del V Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva (pp. 213-231). Sebbene l’articolazione formale dei livelli di contrattazione collettiva tuttora riportata negli accordi interconfederali e nazionali di settore non dia conto della disintegrazione crescente dei processi di produzione in alcuni settori economici, questi sviluppi stanno già impattando nei fatti il funzionamento quotidiano e la performance delle relazioni industriali in Italia.
Quel che resta di un modello di decentramento organizzato
Tra i due scenari opposti sopra descritti, continuano comunque a collocarsi quelle piccole aziende attive in settori caratterizzati da alti livelli di lavoro temporaneo (fra gli altri: agricoltura, costruzioni, turismo, servizi) presso le quali sono applicate in via complementare sia le norme dei CCNL, sia quelle della contrattazione territoriale (benché la diffusione di quest’ultima non sia omogenea su tutto il territorio nazionale). Inoltre, come dimostrano i rapporti annuali sulla contrattazione collettiva prodotti in Italia (come quelli realizzati da ADAPT, Fondazione Di Vittorio e CISL), è riscontrabile anche una quota di aziende medie e piccole, specialmente della manifattura, coperte sia dai CCNL che dalla contrattazione aziendale. Tendenzialmente, la contrattazione decentrata in queste realtà affronta un novero di materie più ristretto rispetto a quelle trattate dagli accordi delle grandi aziende, prima descritte. E proprio per questa ragione, si potrebbe affermare che le medie aziende manifatturiere rappresentino meglio di altre la struttura contrattuale a doppio livello progettata in Italia dagli accordi interconfederali e di categoria, e ciò nonostante non possano escludersi, anche in questi casi, violazioni delle norme di coordinamento fra livelli (si pensi al tema dell’intervento sugli elementi fissi della retribuzione). Tuttavia, come è stato evidenziato (G. Sateriale, Ripensare la contrattazione, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2017, n. 3, 710-728), la quota delle aziende di medie dimensioni nella manifattura si sarebbe progressivamente ridotta negli ultimi decenni, e ciò avrebbe condotto a una polarizzazione crescente nella dimensione delle aziende italiane e conseguentemente – potremmo aggiungere – nella struttura negoziale concretamente applicata. Del resto, il modello su due livelli imperniato sulla logica del decentramento organizzato, tradizionalmente ben interpretato dalle aziende di medie dimensioni, sembra progressivamente lasciare spazio, ai due estremi della classificazione sopra proposta, a una sola dimensione della contrattazione collettiva: nelle aziende grandi e grandissime, verso un decentramento completo o comunque in larga parte autonomo; nelle realtà piccole e piccolissime, verso un assetto tutto incentrato sulla contrattazione nazionale, sia pure con non pochi punti deboli e flessibilità.
Sebbene questi sviluppi si realizzino per lo più all’ombra dell’articolazione formale degli assetti della contrattazione collettiva, così come delineati a livello di settore e interconfederale, certi recenti scontri e divisioni nell’ambito della rappresentanza dei datori di lavoro in Italia (si pensi all’uscita di FCA da Federmeccanica-Confindustria, o all’uscita di Federdistribuzione da Confcommercio) sembrano evidenziare ulteriormente la polarizzazione in corso, dando prova della difficoltà delle associazioni datoriali nel tenere assieme interessi e preferenze sempre più differenziati, anche quando si tratta di contrattazione collettiva (F. Bulfone, A. Afonso, Business against markets: Employer resistance to collective bargaining liberalization during the Eurozone crises, in Comparative Political Studies, 2020, vol. 53, n. 5, 809-846). In questo senso, la suggestione di Marco Biagi (M. Biagi, Cambiare le relazioni industriali. Considerazioni sul rapporto del gruppo di alto livello sulle relazioni industriali e il cambiamento nella UE, in Rassegna Italiana di Diritto del Lavoro, 2002, n. 2, 147-168) circa un modello di relazioni industriali basato su un singolo livello di contrattazione collettiva, alternativamente nazionale o aziendale a seconda della libera scelta delle parti coinvolte a livello decentrato, sarebbe più che mai vicina alla realtà. E però, quella diffusione della dimensione territoriale della contrattazione collettiva, che nella visione di Biagi avrebbe dovuto ricevere priorità rispetto ai contratti nazionali come strumento di risposta alle esigenze produttive e organizzative delle piccole aziende, sembra tutt’oggi ancora lontana dall’avverarsi. E forse anche per questo motivo, destano crescente preoccupazione gli effetti sul mercato del lavoro (sui tassi di occupazione, sull’inclusione dei gruppi più vulnerabili, sulle disuguaglianze salariali), che l’attuale sistema di contrattazione in Italia, sempre più frammentato e perforato, può produrre (A. Garnero, The impact of collective bargaining on employment and wage inequality: Evidence from a new taxonomy of bargaining systems, in European Journal of Industrial Relations, 2021, vol. 27, n. 2, 185-202).
ADAPT Research Fellow
@ilaria_armaroli
Andrea Rosafalco
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo
@AndreaRosafalco