La Corte di Giustizia europea, il velo islamico e i simboli religiosi in ufficio: attenzione alle semplificazioni

Dinnanzi alla diffusione mediatica di questioni delicate e sensibili come quelle legate al lavoro è sempre importante sgombrare il campo da facili semplificazioni così da evitare gli esiti di disinformazione se non, anche e soprattutto, di strumentalizzazione delle notizie. Ciò, a maggior ragione laddove, come in questo caso, alla delicatezza della tematica lavoristica si aggiunga quella data dai profili connessi al credo religioso.

Con queste poche righe intendo, dunque, tornare sulla vicenda della recente sentenza della Corte Europea di Giustizia, passata alle cronache come la sentenza del “divieto del velo islamico”.  Il tentativo, quindi, non è tanto quello di offrire un commento ai contenuti della sentenza, quanto piuttosto quello di offrire una analisi tecnica della stessa per sgombrare il campo da alcuni equivoci che credo possano essere stati ingenerati nella comunicazione mediatica della vicenda.

Quali? Fondamentalmente dall’equivoco secondo cui, in base alla sentenza della Corte, risulti ora possibile alle aziende vietare alle donne islamiche di indossare il velo.

Quanto espresso dalla Corte, nella sentenza della causa C-157/15, Achbita v. G4S Secure Solutions – emessa contestualmente ad altra (meno chiacchierata) sentenza relativa al velo islamico, ovvero causa C-188/15, Bougnaoui v. Micropole SA – può essere sintetizzato nei seguenti passaggi:

 

1) ai fini della copertura della disciplina europea contro le discriminazioni sul lavoro, la nozione di «religione» deve essere interpretata in senso ampio, cosicché rientra nell’ambito tutelato non soltanto il fatto di avere convinzioni religiose (cd. forum internum), ma anche la manifestazione pubblica della propria fede religiosa (cd. forum externum);

2) ai sensi della medesima disciplina non configura discriminazione diretta basata sulla religione un divieto generale, adottato dal datore di lavoro tramite una norma interna all’azienda, di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religione, nel momento in cui esso venga applicato omogeneamente e senza distinzioni a tutti i propri dipendenti;

3) nonostante non si possa riscontrare una discriminazione diretta, un tale divieto potrebbe, invece, configurare una discriminazione indiretta. Si tratta di una forma di discriminazione che si verifica laddove un criterio apparentemente neutro «comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia»;

4) secondo la normativa europea, una disparità di trattamento di questo tipo non costituisce una discriminazione indiretta qualora essa sia supportata da una giustificazione oggettiva fondata su una finalità legittima e i mezzi impiegati siano appropriati e necessari.

5) la Corte, che rinviando al giudice nazionale la verifica del ricorrere di tali elementi, riconosce come la volontà di adottare nei rapporti coi clienti una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa debba considerarsi, in linea di principio, legittima, rientrando nell’ambito della libertà d’impresa;

 6) Ciò a condizione che tale volontà trovi riscontro in una prassi applicativa coerente e sistematica e sia applicata a personale che svolga la propria prestazione effettivamente a contatto con i suoi clienti.

 

Aggiunge la Corte che spetta al giudice nazionale verificare se, nel caso di specie, di fronte al rifiuto di svolgere la prestazione senza indossare il velo, il datore di lavoro, senza oneri aggiuntivi, avrebbe potuto offrire alla dipendente una diversa posizione lavorativa, che non implicasse il contatto con la clientela.

Da questa, brevissima, disamina si può capire come, a differenza di quanto semplicisticamente espresso in alcune rese giornalistiche della vicenda, non sia nel potere dell’imprenditore porre un divieto specifico di utilizzo del velo islamico, dovendosi considerare una politica in questo senso direttamente discriminatoria.

 

Inoltre, anche laddove si ponesse un divieto generale di indossare segni religiosi, ciò potrebbe comportare una discriminazione indiretta, qualora da ciò risultasse un particolare svantaggio nei confronti di lavoratori aderenti a determinate religioni ed ideologie, salvo che il divieto stesso possa dirsi oggettivamente giustificato da una finalità legittima e configuri un mezzo appropriato e necessario per il raggiungimento di tale finalità.

 

Emanuele Dagnino

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@Emanuele Dagnino

 

*Pubblicato anche su Job24 – Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2017

 

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La Corte di Giustizia europea, il velo islamico e i simboli religiosi in ufficio: attenzione alle semplificazioni
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