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Bollettino ADAPT 24 febbraio 2020, n. 8
L’incertezza del giudizio, costante ineliminabile di un ordinamento, come il nostro, in cui è escluso il “vincolo del precedente”, rischia talvolta di portare conseguenze pratiche “assurde”.
Tanto vale, in particolare, per la tematica della decorrenza della prescrizione dei crediti maturati dal lavoratore in corso di rapporto di lavoro, con particolare riguardo ai rapporti cui si applica la disciplina ex art. 18 St.lav., come modificata dalla L. 92/2012.
Sulla questione, si sono espressi i giudici di merito con orientamenti tra loro opposti.
In favore della sospensione della decorrenza della prescrizione, fino al momento della cessazione del rapporto di lavoro, si sono pronunciati, ad esempio: Trib. Alessandria, 9 gennaio 2019, n. 4; Trib. Firenze, 16 gennaio 2018, n. 25; Trib. Milano 16 dicembre 2015 n. 3460.
In favore della tesi opposta, invece, secondo cui la prescrizione dei crediti de quibus decorrerebbe in costanza di rapporto si sono pronunciati, sempre a titolo esemplificativo: Trib. Milano 24 aprile 2014 e ancora Trib. Milano, 7 ottobre 2016, n. 2576.
Da ultimo, rileviamo che la Corte di Appello di Milano, con due pronunce pubblicate a distanza di circa due mesi l’una dall’altra, si è pronunciata in modo diametralmente opposto sulla questione.
In un caso, è stata accolta la tesi in favore del lavoratore secondo cui, per i rapporti cui si applica l’art. 18 novellato dalla legge Fornero, il dies a quo inizia a decorrere dal giorno della cessazione del rapporto di lavoro (C. App. Milano, n. 376 del 30 aprile 2019).
Nel secondo caso, invece, la medesima Corte di Appello –in diversa composizione – si è espressa in favore della parte datoriale, affermando che la prescrizione decorre in costanza di rapporto di lavoro (C. App. Milano, n. 35 del 19 febbraio 2019).
È curioso rilevare che, in entrambi i giudizi, la società coinvolta era la medesima (e per fattispecie del tutto analoghe).
Di là dai profili di incertezza del diritto, entrambe le pronunce di Appello meritano un approfondimento.
Val la pena ricordare che l’odierno dibattito si innesta su principi giurisprudenziali consolidati, che sono così riassumibili: la prescrizione dei crediti retributivi inizia a decorrere dal momento della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di consentire al lavoratore di esercitare il proprio diritto al soddisfacimento del credito senza il timore che il proprio datore possa tenere un comportamento di carattere ritorsivo. Tale regola non si applica ai rapporti connotati dalla c.d. stabilità. Più precisamente, deve ritenersi assistito dalla garanzia di stabilità il rapporto di lavoro regolato da una disciplina che, sul piano sostanziale, subordina la legittimità e l’efficacia della sua risoluzione alla sussistenza di circostanze oggettive e predeterminate e che, sul piano processuale, affida al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Tale ultimo aspetto va riconosciuto in tutti i casi in cui la normativa appresti, per l’ipotesi di illegittimità del licenziamento, una tutela cosiddetta “reale”. È “reale” la tutela che consente non soltanto il risarcimento del danno di fronte all’illegittimo licenziamento, bensì anche la reintegrazione in servizio del lavoratore.
La tesi della sospensione della decorrenza della prescrizione
La sentenza della Corte meneghina che ha accolto la tesi del lavoratore si fonda su due considerazioni, tra loro collegate.
Si è ritenuto che il regime sanzionatorio per illegittimità del licenziamento di cui all’art. 18 “post Fornero” non garantirebbe quella stabilità del rapporto di lavoro, richiesta dalla giurisprudenza ai fini della decorrenza della prescrizione nel corso del rapporto, avendo la L. 92/2012 approntato “un articolato sistema sanzionatorio nel quale la reintegrazione è stata fortemente ridimensionata, riservata ad ipotesi residuali, che fungono da eccezione rispetto alla tutela indennitaria”.
Tale ridimensionamento emergerebbe dal confronto tra la precedente e la nuova disciplina, la quale si limiterebbe a prevedere la tutela reintegratoria in ipotesi che vengono considerate minoritarie o residuali.
Da tanto ne conseguirebbe la seconda considerazione, per cui “il lavoratore si trova in una condizione soggettiva di incertezza circa la tutela (reintegratoria o indennitaria) applicabile nell’ipotesi di licenziamento illegittimo”.
La Corte conclude nel senso che sarebbe “pertanto ravvisabile la sussistenza di quella condizione di metus” in cui si trova il prestatore di lavoro, anche tenendo conto dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la condizione di metus debba essere verificata ed accertata in concreto dal giudice.
La tesi della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto
Di contro, con la sentenza n. 35 del 19 febbraio 2019, la Corte di Appello di Milano ha accolto la tesi datoriale, ritenendo che le modifiche introdotte dalla L. Fornero non abbiano affatto “sminuito […] il grado di stabilità del rapporto di lavoro” al punto da “far riemergere nel lavoratore quel metus che giustifica la non decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto”.
La stabilità del rapporto, ad avviso della Corte, può essere desunta dalla analisi della disciplina c.d. post-Fornero, che, per un verso, ha mantenuto la tutela reintegratoria in una serie di ipotesi di licenziamento illegittimo e, per altro verso, ha comunque previsto poste indennitarie “di non esiguo valore”.
Proprio per evidenziare che la tutela reintegratoria è tutt’altro che residuale, la Corte ha elencato i casi in cui si applica tale tutela, ovvero:
- licenziamenti discriminatori o comunque nulli, di cui al comma 1 dell’art. 18 Stat. Lav.;
- insussistenza del fatto contestato posto a base di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa ovvero l’appartenenza di quel fatto a quelli per cui è prevista una sanzione conservativa;
- difetto di giustificazione per i licenziamenti per inidoneità fisica o psichica o per superamento del comporto ovvero manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo.
A ciò, si aggiunge, ad avviso della Corte, che la legge Fornero prevede un rito accelerato per i licenziamenti, che consente al lavoratore di pervenire in tempi rapidi alla tutela della propria posizione.
Sebbene sia comprensibile la sensibilità dei giudici per la situazione di metus in cui il lavoratore può trovarsi, idoneo a indurlo a non avanzare pretese, in corso di rapporto, di quanto gli sarebbe dovuto, a mio sommesso avviso non appaiono condivisibili le argomentazioni addotte a sostegno della tesi della sospensione della decorrenza della prescrizione a seguito della entrata in vigore della legge Fornero.
D’altronde, già da autorevoli autori è stato sottolineato che una vera e propria stabilità (recte: una vera e propria garanzia della stabilità) del rapporto di lavoro è sempre stata assente, in considerazione dei limiti connessi all’esecuzione dell’ordine giudiziale di reintegra.
Non esistono, infatti, strumenti coercitivi volti ad eseguire forzatamente e interamente l’obbligo di fare imposto al datore di lavoro: l’inadempimento dell’obbligo di reintegra importa, infatti, l’obbligo di natura secondaria di risarcire il danno (sul punto, Cass. civ., sez. lav., 15 aprile 2013, n. 9073).
Occorre considerare, poi, che le modifiche intervenute in tema di regime sanzionatorio per illegittimità del licenziamento lasciano del tutto inalterata la tutela reintegratoria per l’ipotesi di licenziamento intimato per motivo illecito determinante (al quale viene ricondotto anche il recesso “ritorsivo” ovvero intimato “per rappresaglia”, da intendere quale arbitraria reazione nei confronti di comportamenti legittimi del lavoratore o di altra persona allo stesso legata) nonché per ragioni discriminatorie, ed ancora nell’ipotesi della insussistenza del fatto contestato (già interpretato dalla giurisprudenza come “fatto giuridico” e non solo “materiale”): ipotesi, queste, tutte idonee, a ben vedere, a costituire una copertura per il caso di licenziamento intimato al solo fine di “liberarsi” di un lavoratore che avanzi pretese indesiderate. Ed a consentire, pertanto, al lavoratore di avanzare ogni richiesta, senza alcun timore.
D’altronde, intanto la tutela della garanzia della stabilità del rapporto può dirsi realizzata, in quanto il Legislatore appresti strumenti di tutela idonei a consentire il ripristino dello status quo ante.
Diversamente opinando, si perverrebbe a “neutralizzare”, in nome di uno stato di soggezione psicologica che non ha ragion d’essere, la funzione stessa della disciplina della prescrizione, che è – per l’appunto – la certezza del diritto, con violazione dei criteri di cui all’art. 12 preleggi.
Inoltre, pare opportuno ricordare il monito espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, in un obiter dictum della sentenza n. 1268 del 12 aprile 1976, si è espressa nel senso che la distinzione tra rapporti “con” o “senza” stabilità, utilizzata al fine di regolare la materia del dies a quo della prescrizione dei crediti retributivi, «non giustifica l’obliterazione del principio fondamentale che la formulazione della disciplina a tutela del contraente più debole non spetta ad altri che al legislatore. Il giudice può solo, in sede di applicazione del diritto positivo, procedere talora a particolari valutazioni del comportamento delle parti»; ciò tenendo conto, peraltro, che il regime della prescrizione, proprio in ragione della funzione sopra individuata, è sottratto tanto alla disponibilità delle parti quanto ad interventi correttivi del giudice.
In conclusione, su tale questione non può che auspicarsi un intervento urgente del legislatore o quantomeno della Corte di Cassazione nell’esercizio della propria funzione nomofilattica.
Federico Ubertis
Studio legale de Berardinis Mozzi