La già corposa famiglia della responsabilità solidale del committente/appaltatore presente nel panorama normativo italiano deve necessariamente inventariare un’ipotesi che oscilla fra la scarsa diffusione e l’ancora più angusta applicazione e che ha la sua fonte nella direttiva 2009/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 giugno 2009 sulle sanzioni e provvedimenti rivolti ai datori di lavoro occupanti cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
Le previsioni della direttiva 2009/52 e la sua trasposizione nel d.lgs. n. 109/2012
Ad ispirare l’atto europeo in parola è stata la convinzione per cui la possibilità di ottenere un lavoro nel vecchio Continente in assenza di un soggiorno regolare rappresenti un invincibile richiamo per l’immigrazione illegale: per contrastare tale fenomeno, quindi, è stato sancito il divieto di occupazione di lavoratori clandestini, ponendo a carico dei datori di lavoro che lo trasgrediscono sanzioni finanziarie, amministrative e penali, unitamente all’obbligo di pagare ai medesimi lavoratori clandestini irregolarmente occupati le retribuzioni arretrate per il lavoro svolto, i contributi previdenziali e fiscali dovuti, nonché i costi per il loro rimpatrio ed il trasferimento delle somme maturate. A completare il disincentivo all’utilizzo non regolamentato di manodopera extracomunitaria è stata prevista la responsabilità solidale dell’appaltante, di cui il datore di lavoro è subappaltatore diretto, per le sanzioni finanziarie e gli arretrati retributivi, con potenziale coinvolgimento di tutti i soggetti della filiera negoziale in caso di loro conoscenza/conoscibilità dell’irregolare soggiorno del lavoratore occupato, salvo che non abbiano assunto i contegni diligenti stabiliti dalla legislazione nazionale.
Anche nel tentativo di interrompere la procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea per la mancata attuazione della direttiva entro il termine previsto, il d.lgs. n. 109/2012 ha adempiuto all’obbligo comunitario tramite, da un lato, la modifica delle fattispecie penalistiche contenute nel d.lgs. n. 286/1998 e, dall’altro, la presunzione della durata del rapporto di lavoro intercorso con il clandestino – pari ad almeno tre mesi, con possibilità per le parti di provarne una durata diversa – l’attività di controllo e la procedura di emersione. Il risultato che ne è emerso, tuttavia, non è riuscito ad andare oltre un’attuazione parziale dell’atto comunitario.
Infatti, mentre il testo normativo nazionale ha circoscritto la presunzione di durata del rapporto di lavoro agli obblighi retributivi, contributivi e fiscali, la direttiva vi ha contemplato anche i costi per il rimpatrio ed il trasferimento degli arretrati e degli oneri collegati. Peraltro, la formulazione della disposizione italiana non ha permesso di chiarire nemmeno se la presunzione de qua si riferisca ai rapporti subordinati ed alla durata del rapporto, dovendo il lavoratore dimostrare il vincolo di subordinazione, come implicitamente ricavabile dai rilievi posti da alcuni commentatori (T. Vettor, Lavoro e immigrazione irregolare nel d.lgs. n. 109 del 2012, in Diritto, Immigrazione, Cittadinanza, 2012, 3, 38 ss.), ovvero se la presunzione abbia esonerato il lavoratore extracomunitario da tale onere probatorio, come proposto da altri (G. Cannella, C. Favilli, La direttiva sulle sanzioni per l’impiego di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare: contenuto ed effetti nell’ordinamento italiano, ivi, 2011, 2, 37 ss.).
Per quanto qui rileva, la questione giuridica più delicata in relazione al recepimento della direttiva ad opera del d. lgs. n. 109/2012 ha riguardato l’individuazione delle disposizioni dell’atto comunitario direttamente invocabili nel nostro ordinamento, al netto dell’interpretazione adeguatrice delle norme di questo rispetto a quella. Infatti, giusta art. 288, c. 2, TFUE, «La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi», con la conseguenza che gli Stati devono realizzare gli obiettivi indicati nell’atto normativo europeo: tuttavia, in caso di inerzia dell’ordinamento giuridico nazionale, la direttiva con contenuto chiaro, preciso ed esente da condizioni ha effetto diretto nei rapporti verticali tra Stato e cittadini destinatari di inequivoche posizioni giuridiche.
In ragione di ciò, benché la responsabilità solidale nei subappalti sia estesa dall’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, alla filiera contrattuale a prescindere dall’elemento soggettivo e pur se entro un termine decadenziale al contrario non previsto dalla direttiva, non appare condivisibile la tesi di chi, ritenendo la disciplina italiana sulla responsabilità solidale nei subappalti più severa rispetto alla previsione comunitaria, ha ritenuto che l’ordinamento giuridico nazionale non fosse obbligato a trasporla (G. Cannella, C. Favilli, op. cit.).
La responsabilità solidale nei subappalti nella legge Biagi e nella direttiva 2009/52
Infatti, malgrado prime facie l’art. 29, c.omma 2, d.lgs. n. 276/2003, sembri contenere l’art. 8 della direttiva, notevoli sono le differenze tra le citate disposizioni: a livello di disciplina, essendo la norma italiana derogabile solo per gli aspetti retributivi, laddove a livello comunitario è possibile sottrarsi al vincolo anche per le sanzioni finanziarie previste per dissuadere dal ricorso alla manodopera clandestina; in relazione al contenuto, posto che la fattispecie della legge Biagi riguarda retribuzioni, contributi ed oneri fiscali (G. Gamberini, D. Venturi, Appalto: le responsabilità delle imprese dopo il c.d. decreto Semplificazioni fiscali, in Il giurista del lavoro n. 1/2015, 10 ss.), nonché i contributi dei lavoratori autonomi e parasubordinati con espressa esclusione del vincolo solidale quando committente sia la PA, laddove l’atto europeo copre le sanzioni finanziarie, gli arretrati, le spese per il loro trasferimento nel Paese di origine ed i costi per il rimpatrio dei lavoratori immigrati, nulla prevedendo né con riferimento ai contributi dei lavoratori autonomi, né ad una possibile esclusione della solidarietà se il committente è un soggetto pubblico; in merito alla natura della solidarietà, mentre il litisconsorzio necessario ed il beneficio di preventiva escussione in favore dell’obbligato solidale hanno reso sussidiario il rimedio domestico, la fattispecie continentale contempla la natura diretta del vincolo.
Considerazioni conclusive
Quanto sin qui esposto pone un interrogativo sull’eventuale parziale trasposizione della direttiva 2009/52/CE da parte del legislatore italiano in ordine alla responsabilità solidale nei subappalti e sulle possibili conseguenze di tale situazione: la risposta affermativa muoverebbe dal rilievo fattuale consistente nella data di emanazione del d. lgs. n. 109/2012, precursore di soli due giorni l’entrata in vigore della l. n. 92/2012, la quale ha sensibilmente modificato la responsabilità solidale. Tale contingenza temporale, quindi, darebbe conto della convinzione del legislatore italiano che la cd. riforma Fornero avesse attuato pienamente il precetto comunitario in parola, non essendo quindi necessario alcun ulteriore intervento. Ove così fosse stato, tuttavia, la prospettiva di partenza dell’indicata scelta normativa non meriterebbe condivisione, posto che una più attenta e ponderata analisi della fattispecie comunitaria avrebbe piuttosto agevolmente palesato i differenti ambiti operativi delle due ipotesi di solidarietà, imponendo di conseguenza una rivisitazione della legge Biagi sul punto ovvero l’emanazione di un’apposita disciplina.
L’inerzia normativa a riguardo, nella misura in cui farebbe dubitare della sua pur doverosa compliance rispetto agli obblighi di natura comunitaria, al contempo obbligherebbe a cercare possibili soluzioni applicative per colmare il vuoto normativo venutosi a creare. A tal proposito, una soluzione praticabile potrebbe consistere nell’interpretazione adeguatrice del citato art. 29, comma 2, all’art. 8 della direttiva, quantomeno con riferimento agli arretrati, ai costi per il loro trasferimento e per il rimpatrio del lavoratore, stante la difficile praticabilità dei differenti rimedi dell’applicazione diretta delle disposizioni della direttiva non trasposte e del presidio risarcitorio: nel primo caso, perché il contenuto dell’art. 8 cit., pur se chiaro ed univoco, non è esente da condizioni in ragione della mancata attuazione, ad opera del legislatore nazionale, degli artt. 5 e 13 della direttiva sulle sanzioni finanziarie e l’agevolazione delle denunce; nella seconda ipotesi, stante l’intuibile difficoltà, linguistica, economica e logistica, per i lavoratori extracomunitari di adire la via giudiziaria per ottenere il risarcimento a fronte della mancata attuazione delle posizioni giuridiche soggettive loro riconosciute dalla direttiva.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@GiovCarosielli