La filosofia del fare impresa di Bernardo Caprotti: l’importanza della formazione e della organizzazione del personale

La scomparsa di Bernardo Caprotti, fondatore e patron di Esselunga, lascia il settore della distribuzione italiana e del largo consumo senza uno dei suoi principali protagonisti, l’imprenditore che, nell’arco di sessant’anni, è stato l’alfiere del retail italiano, rispettato dai concorrenti, ammirato per il successo della sua azienda.

Un successo che, mattone dopo mattone, si è andato rafforzando dall’apertura nel 1957 del primo supermarket a Milano (480 metri quadrati, 2500 articoli), fino a fare diventare la sua impresa leader, e si è sostanziato in una scrupolosa focalizzazione sull’innovazione. Non quella di facciata, ma quella pragmatica e concreta, risultato della commistione del suo essere brianzolo per nascita e americano per vicinanza. Quella stessa idea di innovazione lo portava regolarmente a supervisionare i punti vendita, analizzare gli scaffali con i suoi manager e parlare con il personale per individuare gli ambiti di intervento, con l’obiettivo primario di migliorare l’esperienza del cliente e contemporaneamente l’efficienza dell’azienda.

Non a caso la nascita di Esselunga avviene dopo una visita negli Stati Uniti all’inizio degli anni Cinquanta quando cominciano a diffondersi i primi supermercati a self service.

È utile, quindi, ripercorrere la visione di Bernardo Caprotti e la sua idea di distribuzione alimentare moderna, prendendo spunti non tanto dal pamphlet “Falce e carrello”, che gli ha dato ampia visibilità pubblica dopo decenni nei quali si era sempre negato ai media, ma dal discorso tenuto all’Accademia dei Georgofili solo due anni fa, all’inizio del 2014.

Un discorso ampio e articolato che ripercorre lo sviluppo della distribuzione alimentare e che costituisce una testimonianza esplicita della passione per il supermarket come strumento per «portare i prodotti direttamente al consumatore finale al più presto, nelle migliori condizioni possibili e al prezzo più basso», creando anche «la propria marca, cioè i prodotti a marchio del distributore, la private label»

 

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