Nella piazza mediatica non è seconda a nessuno. In quelle delle città riesce ancora a coagulare il malcontento. È piuttosto nei piazzali delle fabbriche dove soffre di più, con gli iscritti in calo, le sconfitte ai referendum e risultati altalenanti nelle elezioni delle rappresentanze: in alcune aziende un successo, in altre una sconfitta. La Fiom che si appresta alla tradizionale sfilata d’autunno per l’ennesimo sciopero in solitaria – questa volta sdoppiato: venerdì a Milano per il Centro-Nord, il 21 a Napoli per il Mezzogiorno – è un sindacato sempre più al centro del dibattito politico, meno della contrattazione. Una «Federazione impiegati e operai metallurgici» in bilico tra la spinta a trasformarsi in un qualcosa d’altro e l’attaccamento alle radici in fonderia e nelle catene di montaggio.
Egemonia mediatica
Nella rappresentazione dei media, la Fiom è diventata “il sindacato” dei metalmeccanici. E perfino la Cgil è costretta a difendere i propri spazi, a marcare il territorio, per non essere surclassata. Non c’è talk show, infatti, che si privi della presenza del suo segretario. Quel Maurizio Landini che si divide tra “Servizio pubblico” e “Piazza pulita”, tra “In mezz’ora” e “Ballarò”, senza dimenticare “Di martedì” e tutto il resto della settimana televisiva. Maglione rosso o giacca a seconda del salotto, la camicia aperta sulla maglietta della salute ormai divenuta un’icona, nella semplificazione televisiva Landini incarna la totalità delle tute blu. Ma è veramente così? In realtà, no.
La Fiom è sì la maggiore federazione dei metalmeccanici per iscritti, ma con numeri piuttosto relativi. I lavoratori metalmeccanici, infatti, in Italia sono circa 2 milioni: 1,6 milioni dipendenti delle industrie e il resto nel settore dell’artigianato. La sindacalizzazione è crollata dal 50% dell’autunno caldo fino al minimo del 32,5% registrato nel 2012. La Fiom-Cgil ha 351.432 iscritti (dato 2013) e ne ha persi 5.544 rispetto all’anno precedente. La Fim-Cisl è invece in crescita costante nel decennio: più 4.112 iscritti nell’ultimo anno per un totale di 221.349 lavoratori. La Uilm è più o meno stabile a quota 90.438, seguono poi con numeri decisamente minori Uglm, Fismic, Cobas e altre organizzazioni. Quanto alle aziende, la Fiom è particolarmente forte in alcune Regioni come l’Emilia Romagna (da dove vengono gli ultimi segretari generali e dove firma senza timori), la Toscana, l’Umbria, una parte della Lombardia. E da ultimo ha registrato una importante affermazione nelle votazioni per i rappresentanti di Cometa, il fondo di previdenza integrativa della categoria, con il 57,6% dei consensi contro il 22,85% di Fim e il 12,14% della Uilm. Nelle imprese, invece, il dato è a macchia di leopardo. All’Ast di Terni, al centro di scontri e polemiche negli ultimi giorni ad esempio, è la Fim-Cisl l’organizzazione più rappresentativa. E a prendere le botte settimana scorsa a Roma c’erano più appresentanti fimmini – compreso Marco Bentivogli che domani sarà eletto segretario generale – che non della Fiom. Eppure tutte le telecamere e le interviste sono state solo per Landini. Ancora più significativa la situazione alla Fiat, ora Fca.
Come si ricorderà la Fiom si è opposta fin dall’inizio al piano di ristrutturazione e rilancio del gruppo automobilistico, impuntandosi in particolare sul «no» ai sabati di straordinario (quasi mai svolti, vista la crisi) e la rimodulazione delle pause. Ha ingaggiato un lungo braccio di ferro legale con l’azienda, con sentenze di diverso segno e che ha infine vinto, grazie a un pronunciamento della Corte costituzionale (che ha cambiato il proprio orientamento). Ma ha pesantemente perso sul piano della rappresentanza. Anzitutto uscendo sconfitta da ben 3 referendum tra i lavoratori di Pomigliano, Grugliasco e Mirafiori (senza poi riconoscerne il risultato). E poi precipitando al quinto posto fra le organizzazioni sindacali in fabbrica: per numero di iscritti e delegati nelle elezioni delle Rsa, infatti, è prima la Fim-Cisl, poi la Uilm, la Fismic, l’Associazione quadri Fiat e infine arriva appunto la Fiom. Non avendo firmato il contratto, l’organizzazione di Landini sconta la disaffezione di quei lavoratori che hanno necessità non tanto di una rappresentanza di bandiera ma anzitutto di veder salvaguardato il proprio posto e poi di una tutela più pratica nel lavoro quotidiano. A livello generale, ancora, la Fiom non ha firmato ben tre degli ultimi quattro contratti nazionali dei metalmeccanici. Se non lo avessero fatto le altre organizzazioni, oggi una tuta blu di 5 livello guadagnerebbe 397,22 euro in meno per i «no» di Landini e dei suoi predecessori. E non è poco.
«Senza contrattazione non c’è rappresentanza», spiega lo storico dell’industria Giuseppe Berta. «Non firmando il contratto Fiat e opponendosi anche all’accordo sulla rappresentanza stretto da Cgil, Cisl, Uil con Confindustria, la Fiom si è posta in una posizione difficile – spiega –. Gli spazi si vanno restringendo. Per questo la federazione guidata da Landini gioca ora la carta del sindacato-movimento che manifesta, più di quella del sindacato-classico che contratta». Il segretario Maurizio Landini continua a negare una sua discesa in politica (anche se nell’ultima intervista a «In mezz’ora» si è lasciato scappare un «oggi non voglio impegnarmi in politica»). È consapevole infatti che una forza a sinistra del Pd avrebbe difficoltà ad andare oltre la pura testimonianza.
Mentre lui – forte di una personale coerenza e trasparenza: la sua busta paga da 2.200 euro al mese è pubblicata sul sito della Fiom – «non ha l’obiettivo di testimoniare» ma ha «l’ambizione di rappresentare la maggioranza del Paese, tutti quelli che lavorano» contrastando le politiche del governo Renzi sia riguardo all’articolo 18 e il Jobs act, sia alla manovra economica, fino all’impostazione della politica europea di austerità. Per farlo lo sciopero generale degli iscritti Fiom è solo il primo passo. Spiega infatti Landini: «Noi non ci fermeremo nella lotta anche se il governo mettesse la fiducia (su Jobs act e legge di stabilità). La Confindustria sappia che non avrà vita facile nelle aziende… siamo pronti anche ad azioni legali».
Insomma, l’avvio di una nuova campagna «politica» attorno alla quale coagulare altri movimenti e parte della società civile. Non per niente, l’altro ieri lo stesso Landini ha annunciato che «la manifestazione di venerdì a Milano non è solo della Fiom ma di tutti quelli che pensano sia necessario cambiare le politiche del governo. Siamo pronti ad aprire le porte dei nostri pullman ad altri». Il sindacato come movimento politico, quindi, prima e più che come associazione di rappresentanza degli interessi dei lavoratori nelle fabbriche. Una scelta che Landini rivendica: «Il sindacato ha sempre fatto politica – ha spiegato dalla Annunziata –. Non esiste che si occupi solo di questioni aziendali».
Rivoluzione d’ottobre all’emiliana
«In realtà solo in Italia si pensa che il governo debba contrattare la manovra economica o la politica europea con il sindacato – commenta Bruno Manghi, sociologo del lavoro, una vita nella Fim e nella Cisl –. L’articolo 18 è solo una questione simbolica. Il nodo è se il sindacato torna a dare priorità assoluta al suo mestiere e cioè contrattare per innalzare la produttività nelle aziende, facendo così crescere l’occupazione e i salari, oppure continua a volersi occupare di altro. Il sindacato è forte e credibile quando negozia. L’antagonismo è un segno di debolezza». Qui sta il bivio del futuro della Fiom e di riflesso della Cgil (che oggi Landini cerca di condizionare) tra un maggiore protagonismo politico, costruendo dal sindacato e nel sindacato, l’alternativa di sinistra al governo Renzi e a una politica ritenuta inadeguata e anti-popolare. Oppure il ritorno alle origini: alla contrattazione a tutto campo, all’interno delle imprese e fra la nuova base dispersa tra lavoro individuale e nuove forme di sfruttamento.
Landini, con il suo «ssiopero generale» e la minaccia di «occupare le fabbriche» pare aver imboccato la prima strada, una rivoluzione d’ottobre all’emiliana. Il disegno d’altro canto è in linea con un modello sindacale conflittuale e non partecipativo; ancorato al contratto nazionale e restio a valorizzare il livello aziendale; legato a un’idea di sviluppo basato su investimenti e proprietà pubblica delle aziende; di difesa a oltranza di «diritti» spesso astratti dalla realtà. Sul piano mediatico la manifestazione è un’ottima scelta: anche se le fabbriche resteranno attive, in piazza venerdì ci saranno comunque molti lavoratori delle aziende in crisi. Ma che questa sia la strategia giusta per le «magnifiche sorti e progressive» dei metalmeccanici e dei lavoratori in generale è assai difficile.