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Bollettino ADAPT 6 dicembre 2021, n. 43
Con sentenza 23 novembre 2021, n. 218 la Corte Costituzionale ha (ri)acceso il dibattito intorno al Codice dei Contratti pubblici, recentemente finito sotto i riflettori anche in ragione delle modifiche apportate allo stesso dal legislatore (per un approfondimento delle novità legislative in materia si veda, in particolare G. Piglialarmi, R. Schiavo, La nuova disciplina del subappalto nei contratti pubblici, in Bollettino ADAPT 2 novembre 2021, n. 38).
La questione di legittimità costituzionale di cui la Corte Costituzionale è stata investita, sollevata dal Consiglio di Stato, ha riguardato tanto l’art. 1, comma 1, lettera iii), della l. n. 11/2016 relativa all’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione Europea, che congiuntamente, l’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, secondo cui «[…] i soggetti pubblici o privati, titolari di concessioni di lavori, di servizi pubblici o di forniture già in essere alla data di entrata in vigore del presente codice, non affidate con la formula della finanza di progetto, ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea, sono obbligati ad affidare, una quota pari all’ottanta per cento dei contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni di importo di importo pari o superiore a 150.000 euro e relativi alle concessioni mediante procedura ad evidenza pubblica, introducendo clausole sociali e per la stabilità del personale impiegato e per la salvaguardia delle professionalità. La restante parte può essere realizzata da società in house di cui all’articolo 5 per i soggetti pubblici, ovvero da società direttamente o indirettamente controllate o collegate per i soggetti privati, ovvero tramite operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato. Per i titolari di concessioni autostradali, ferme restando le altre disposizioni del presente comma, la quota di cui al primo periodo è pari al sessanta per cento».
La Corte Costituzionale, con specifico riferimento a quanto previsto dall’art. 177 in analisi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, sancendone la contrarietà agli artt. 3, primo comma e 41, primo comma, della Costituzione, inerenti rispettivamente il principio di uguaglianza e a quello di libertà di iniziativa economica. Alla base di tale decisione l’assunto secondo cui il legislatore, pur disponendo di una generale facoltà di limitazione della libertà di impresa ai fini di tutelare la libera concorrenza sul mercato, non può arrogarsi il potere di svuotare totalmente la stessa del proprio contenuto.
La sentenza in esame, sicuramente di primaria importanza per le argomentazioni giuridiche proposte, si pone in linea con gli interventi giurisprudenziali che, nel corso degli anni, si sono susseguiti, non solo a livello nazionale, ma anche comunitario, rispetto a quanto previsto dal Codice dei Contratti in materia di subappalto pubblico. A tal specifico riguardo, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza 26 settembre 2019, causa C-63/18, era giunta a dichiarare la contrarietà alla normativa comunitaria di quanto previsto dall’art. 105 d.lgs. n. 50/2016, nella parte in cui sanciva un limite inderogabile alla quota di attività subappaltabili (il 30% del complessivo importo del contratto di appalto principale). Nell’argomentare la propria posizione, la CGUE aveva utilizzato, nel 2019, argomentazioni analoghe a quelle oggi riproposte dalla Corte Costituzionale, affermando in particolar modo che, nonostante l’evidente intento del legislatore di limitare operazioni illecite nell’ambito delle esternalizzazioni, il vincolo imposto dalla normativa presentasse il rischio di compromissione proprio della libertà di iniziativa economica delle imprese. Una posizione, quella tratteggiata, avvalorata poi anche dalla giurisprudenza nazionale. Dapprima il Tar delle Marche era giunto ad affermare che, a seguito della pronuncia della CGUE, non dovesse più esistere un limite invalicabile alla quota subappaltabile, garantendo specularmente l’autorizzazione al subappalto anche per quote superiori al 30% (ad operatore qualificato), salvo motivata valutazione caso per caso della stazione appaltante (Tar Marche 23 aprile 2020, n. 59). Successivamente, il Consiglio di Stato, confermando l’orientamento, aveva precisato che i limiti del 30% relativi al subappalto secondo la formulazione del comma 2 dell’articolo 105 del d.lgs. 50/2016 dovessero ritenersi superati per effetto delle posizioni espresse dalla Corte di Giustizia Europea (Cons. Stato 17 dicembre 2020, n. 8101). Un orientamento a tal punto consolidato che il legislatore, con d.l. n. 77/2021, successivamente convertito dalla l. n. 108/2021, ha abolito, a far data dal 1° novembre 2021, il suddetto limite del 30%, recependo le indicazioni fornite dapprima dalla CGUE e, in secondo luogo, dalle Corti nazionali.
Alla luce dei precedenti giurisprudenziali citati, appare quindi chiaro come la recente sentenza della Corte Costituzionale consenta di avviare una riflessione a più ampio respiro rispetto al Codice dei Contratti e alla ratio che ha guidato il legislatore nella sua stesura. Sebbene, infatti, sia evidente che l’impianto del decreto legislativo sia stato pensato principalmente con la finalità di eliminare o, in ogni caso, ridurre al minimo gli abusi nell’ambito delle esternalizzazioni nel caso in cui la commessa provenga da un committente pubblico, sembrerebbe potersi oggi affermare che il risultato auspicato non sia stato, almeno in parte, perseguito. Secondo la giurisprudenza, infatti, l’intento indubbiamente condivisibile del legislatore ha finito con il tradursi, de facto, in una insostenibile limitazione della libertà di iniziativa economica degli attori coinvolti, finendo con l’andare a ledere, a più riprese, diritti costituzionalmente garantiti.
Perciò, anche in ragione delle descritte argomentazioni della Corte Costituzionale, diviene ad oggi indispensabile provare quantomeno ad avviare una riflessione rispetto all’attuale impianto del d.lgs. n. 50/2016, interrogandosi da ultimo anche sulla possibilità di operare una complessiva revisione della vigente disciplina, progettando strumenti che, idonei alla limitazione delle irregolarità nelle procedure pubbliche, contestualmente non si pongano in aperto contrasto con i dettami della Carta Costituzionale.
Irene Tagliabue
Assegnista presso il Dipartimento di Economia Marco Biagi
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia