E se il nuovo “Made in China” venisse dagli Stati Uniti? E se poi una riforma delle politiche energetiche creasse più posti di lavoro di una riforma sui licenziamenti? Riuscireste a immaginarlo?
Stando al rapporto The Shifting Economics of Global Manufacturing, del BCG, il prestigioso Boston Consulting Group, i più impensabili scenari economici saranno presto una realtà. Il mondo cambia, plasmato da nuove rivoluzioni economiche ed industriali, di fronte alle quali non possiamo farci trovare impreparati.
Un mondo nuovo
Le politiche di produzione industriale si avviano a non essere più globalizzate. Già oggi produrre negli Stati Uniti costa solo il 4% in più che in Cina. Il Messico sembra essere ancora più conveniente, mentre Brasile, Russia e l’Est Europa, nella partita della competitività sui costi di produzione, perdono terreno nei confronti del Nord America. Secondo l’ultimo rapporto del BCG, negli ultimi 10 anni quattro fattori hanno movimentato la classifica dei paesi in cui il manifatturiero costa meno: politiche monetarie, costo dell’energia, produttività dei lavoratori e, naturalmente, costo del lavoro. Grafici alla mano, tra le 25 economie più performanti in termini di volumi di esportazioni – nella quale ci siamo anche noi italiani, al sesto posto – fatto 100 il costo della produzione negli USA, la Cina è più vicina di quanto non sembri, 96, mentre la nostra penisola arriva a 123, esattamente quanto il Brasile.
Realtà in mutamento
Cosa è successo? È successo che in Cina e Brasile la produttività dell’operaio medio è cresciuta meno del suo salario, che in Russia il gas naturale, presente in grandi quantità, è diventato meno conveniente del gas di scisto americano, mentre l’India ha svalutato a tal punto la rupia da far gola ai portafogli in euro e dollari degli investitori. Al Messico è bastato tenere bassi i costi del lavoro e dell’energia per valorizzare il suo confine terrestre con trecento milioni di consumatori mai sazi, cosa che l’Indonesia, il paese più a buon mercato, non potrà mai fare. Investimenti in ricerca , produttività e flessibilizzazione del mercato del lavoro hanno permesso al Regno Unito e ai Paesi Bassi di mantenere una buona competitività mentre altre economie, tradizionalmente molto costose non hanno fatto che confermare la propria posizione. Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Svezia ed Australia erano proibitive nel 2004 e lo sono ancor più nel 2014.
Mai più cattedrali nel deserto
Immaginiamo il tumulto. Dopo decenni di delocalizzazione l’Occidente deve guardare con occhi diversi il mondo, ridisegnare le cartine e disfarsi dei confini tra economie low cost ed economie dispendiose. È difficile pensare che di colpo Apple sposti le gigantesche fabbriche del Guangdong a Detroit ma forse gli americani non hanno dimenticato la lezione di Fordlândia, la città, ora fantasma, che Henry Ford aveva fatto costruire nel mezzo della foresta amazzonica per avere riserve illimitate di gomma da vulcanizzare e manodopera a costo risibile. Dopo aver cercato, velleitariamente, di convincere i lavoratori locali a mangiare hamburger e raccogliere caucciù sotto il sole equatoriale, anche il più grande interprete del taylorismo si decise a comprare, come i concorrenti, gomma prodotta in Malesia. Perdita stimata: venti milioni di dollari dell’epoca.
Se la Cina non sogna più…
In tutto questo, è il calo di competitività della Cina a far suonare campanelli d’allarme, e quale allarme! Venuto meno il sogno cinese – lavorare, produrre, esportare – come farà la Repubblica Popolare a giustificare la dittatura a un miliardo di operai disoccupati, quando gli impianti saranno trasferiti nel Regno Unito (come ha fatto Ratan Tata, che ha investito 840 milioni di dollari in una fabbrica di automobili Jaguar e Land Rover da 1700 dipendenti) per sfruttarne la produttività altissima, la fiscalità generosa e la flessibilità dei suoi lavoratori?
Certo, nemmeno per gli anglosassoni si prospetta una stagione sindacale facilissima, tra le proteste sempre più accese dei dipendenti dei fast food e le ben documentate denunce dei collaboratori di Amazon – per i sindacati, il peggior datore di lavoro al mondo – impiegati al limite della sussistenza, ma la possibilità di accorciare le filiere e riportare la produzione più vicina ai palazzi della City è più che appetibile, visto l’enorme ritorno che qualche costo in più potrebbe avere.
Rivoluzione globale, effetti locali
La parola inglese usata per la colossale trasformazione che attende i mercati è quasi onomatopeica: shift, un cambiamento repentino, un testa-coda, veloce come un colpo di frusta. Uno sconvolgimento che ricorda quando il Made in Cina divorò il nostro Made in Italy, facendo chiudere con effetto domino una fabbrica dopo l’altra nel Belpaese.
E a proposito dell’Italia, la situazione è ben oltre l’allarmante: la partita è semplicemente persa.
Siamo un paese esportatore e questo ha permesso all’economia italiana di non capitolare del tutto durante la crisi. Ma abbiamo l’energia elettrica più costosa del mondo industriale, una burocrazia elefantiaca e un mercato del lavoro criticato pressoché da chiunque – World Economic Forum in testa. Impensabile un abbassamento degli stipendi senza dare una rasoiata ai consumi interni, già depressi ai minimi storici, ma fosse solo questo.
La nostra moneta è più pesante del dollaro e non la possiamo svalutare, abbiamo un time-to-market vischiosissimo e una classe politica, forse la più furbesca e bizantina del globo, che ha cercato di risolvere il problema dichiarando per legge che una pallida riforma lavoristica avrebbe attirato investimenti esteri. Sembra un paradosso da grida manzoniana, ma è successo – e per davvero – nel 2012.
La produttività dei lavoratori italiani è addirittura in calo.
Apprendere per crescere e resistere
Tutto questo potrebbe eccitare i discorsi degli agitatori del web che invocano la sovranità monetaria o politiche energetiche da rivoluzione industriale, ma vanno subito frenati: far diventare competitiva l’economia italiana giocando sui costi è impossibile. Troppi i fattori sfavorevoli e troppo lunghi i tempi per arginarli, ammesso di avere una soluzione praticabile.
Altro è invece puntare sulla produttività, dove la partita è ancora aperta, e sulla salute dei lavoratori. L’operaio tedesco è un apprendista che si forma costruendo Porsche, BMW e gargantueschi impianti Siemens, quello italiano un cinquantenne con dolori agli occhi ed alla schiena che sogna un apprendista “tedesco” cui trasmettere il sapere (più alcuni dei compiti che non gli riescono così bene come un tempo) e produce occhiali da sole indossati dai nuovi ricchi di Bombay così come dai divi di Hollywood. Perché non possono avere valore aggiunto anche altre nostre produzioni, esclusive ed inimitabili? Quella di poco fa non era una battuta: l’età media nelle fabbriche avanza e con essa la schiera di lavoratori affetti da malattie croniche e degenerative. Alcuni studi dimostrano che questo ha effetti deleteri sulla tenuta psicologica e sullo stress dei lavoratori, con ricadute che si possono ben intuire sulla produttività. È un caso che il Giappone, il paese più vecchio del mondo, condivida il nostro destino?
Il mercato del lavoro che verrà non potrà non tenerne conto.
Le sfide nella grande trasformazione
Non c’è riforma dell’articolo 18, taglio alla burocrazia o accordo commerciale per il gas russo che tenga: bisogna tornare a dar valore aggiunto ai prodotti italiani e non smettere mai di trasmettere da lavoratore a lavoratore quell’expertise e quelle competenze che rendono attraente un investimento nella penisola più esclusiva del mondo. Allora sì che il gioco vale la costosa candela.
Prima che le strade venissero invase da ombrelli a tre euro che si disfano tra le dita di chi li usa, l’ombrello italiano riparava dalle intemperie le teste di mezzo mondo.
Cinesizzarsi è stato un azzardo e presto non sarà più nemmeno possibile. Figuriamoci quando gli yuppies dell’estremo oriente smetteranno di ordinare i nostri vini e guidare Lamborghini o Maserati.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo