Possono i contratti collettivi di prossimità ex art. 8, d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in l. 14 settembre 2011, n. 148, derogare al limite del 20% alla stipula di contratti a termine introdotto dal c.d. decreto Poletti? Questo, in sintesi, il quesito sottoposto al Ministero del lavoro dall’ARIS (Associazione Religiosa Istituti Socio-sanitari) ed oggetto dell’interpello n. 30 del 2 dicembre 2014. Nel merito, la domanda postulava la possibilità di eliminare contrattualmente, mediante la sottoscrizione di «specifiche intese», i limiti quantitativi di ricorso al contratto a termine (cd. clausole di contingentamento) stabiliti dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva in base al combinato disposto degli artt. 1, c. 1., 10, comma 7, d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, come modificati dal d.l. 20 marzo 2014, n. 34, conv. in l. 16 maggio 2014, n. 78.
Dopo aver ricordato che la tassatività dell’elenco delle materie derogabili dalla cd. contrattazione di prossimità rende il medesimo insuscettibile di applicazione estensiva ovvero analogica (Cfr. sentenza della Corte costituzionale n. 221 depositata il 4 ottobre 2012), avendo constatato che la disciplina del contratto a termine risulta contemplata fra quelle passibili di modifica negoziale, il Ministero del lavoro ha evidenziato che i confini applicativi di detta facoltà devono essere circoscritti al duplice requisito previsto dal medesimo art. 8, d.l. n. 138 cit., consistente nelle finalità cui dette intese sono rivolte e nel rispetto della fonte costituzionale e comunitaria. Il primo requisito prevede la funzionalizzazione delle intese de quibus alla «maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività» (c. 2, art. 8, cit.), laddove il secondo individua nel «rispetto della Costituzione, nonché [ne]i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro» il limite oltre il quale la portata derogatoria negoziale non può spingersi.
Ed è proprio con riferimento a quest’ultimo presupposto che il Ministero individua il fondamento giuridico posto alla base della risposta negativa fornita al quesito in parola, riassumibile nel seguente ragionamento: avendo il preambolo dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP del 18 marzo 1999 – trasfuso nella direttiva 1999/70/CE – sancito che «i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro», e dovendo la contrattazione di prossimità esprimersi rispettando la cornice giuridica comunitaria ed internazionale di riferimento, ne deriva che «l’intervento della contrattazione di prossimità non potrà comunque rimuovere del tutto i limiti quantitativi previsti dalla legislazione o dalla contrattazione nazionale ma esclusivamente prevederne una diversa modulazione» (interpello Min. lav. n. 30/2014, cit., grassetto ministeriale, ndr).
L’argomento ministeriale appare condivisibile pur se, considerata la complessità e delicatezza della questione, avrebbe meritato una più chiara illustrazione del relativo ragionamento giuridico. Infatti, fino all’emanazione del d.l. n. 34/2014, non erano previste clausole di contingentamento legale per l’impiego del contratto a termine, essendo state introdotte con il decreto Poletti in un’ottica di bilanciamento della misura di liberalizzazione ivi contenuta, la quale ha svincolato la stipulazione dei contratti a tempo determinato dal soddisfacimento di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo inizialmente previste. Nel previgente regime normativo, la compliance rispetto al diritto dell’Unione europea e, segnatamente, al predetto principio dell’accordo quadro, era garantita dall’obbligo di indicazione della causale al contratto a termine, posto che la clausola 5 della direttiva 1999/70/CE invitava gli Stati membri ad introdurre una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti o dei rapporti a termine; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti, senza tuttavia alcuna menzione delle clausole di contingentamento. Tuttavia, l’omessa previsione, a livello comunitario, di un limite quantitativo all’utilizzo del contratto a termine tra gli indicatori a garanzia del principio di eccezionalità dei rapporti a termine contenuto nel preambolo della direttiva, recepito all’art. 1, c. 01, d.lgs. n. 368/2001, non priva di persuasività il ragionamento svolto dal Ministero del lavoro, che ravvisa proprio in detto limite la ratio della risposta negativa al quesito. Ciò in ragione del fatto che sebbene non ascrivibile tra i requisiti previsti alle lettere a-b-c della suddetta clausola 5, il limite percentuale previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva resta comunque idoneo ad assicurare il rispetto del diritto dell’Unione europea in quanto detti requisiti devono essere garantiti «in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori». Da questo punto di vista, la clausola di contingentamento può essere considerata alla stregua di una norma equivalente.
A tale argomento potrebbe obiettarsi che anche nell’ipotesi di totale elisione del limite quantitativo da parte della contrattazione, la compliance col diritto dell’Unione europea resterebbe comunque assicurata dal limite di durata di 36 mesi del contratto a termine che continuerebbe a garantire il rispetto del requisito di cui alla clausola 5, lettera b) della direttiva. Se non fosse tuttavia che, nel disciplinare la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di supero dei 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, il d.lgs. n. 368/2001 fa salve «diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». L’inciso sulla contrattazione può aprire a diverse soluzioni, alcune compatibili con la direttiva altre meno. L’apertura alla contrattazione collettiva potrebbe dar luogo, ad esempio, non solo all’innalzamento o all’abbassamento del massimale, quanto alla totale rimozione dello stesso. Nonostante tale ultima prospettiva sia altamente irrealistica, considerando il costo opportunità che implicherebbe sul piano della dinamica negoziale, in assenza di una norma equivalente inderogabile, quale è la clausola di contingentamento, «sarebbe sufficiente che la rimozione del vincolo temporale fosse anche solo potenziale per mettere in discussione la compatibilità del nuovo equilibrio normativo rispetto al diritto della Unione europea» (cfr. M. Tiraboschi, P. Tomassetti, Il nuovo lavoro a termine alla prova della contrattazione collettiva, in M. Tiraboschi (a cura di), Jobs Act: il cantiere aperto delle riforme del lavoro. Primo commento al d.l. 20 marzo 2014 convertito, con modificazione, in l. 16 maggio 2014, n. 78, ADAPT Labour Studies e-Book Series, 2014, n. 25).
Ciononostante, dal punto di vista della prassi delle relazioni industriali, la posizione ministeriale avrebbe potuto considerare che le soluzioni individuate dalla contrattazione aziendale sono normalmente – e, verrebbe da dire, necessariamente – di natura compensativa e compromissoria, meritando quindi di esser lette alla luce del complessivo assetto di regolamentazione degli interessi emerso dalla trattativa intercorsa fra le parti. Invero, un accordo di prossimità che, a fronte della rimozione della clausola di contingentamento, anche solo ipoteticamente e a prescindere da valutazioni di opportunità reintroducesse l’obbligo di motivazione della causale, tenendo fermo o finanche abbassando il tetto di 36 mesi alla durata massima dei rapporti a termine, sarebbe largamente compatibile con la legislazione europea, al pari di uno omologo che, viceversa, sforando il limite temporale contemplato dal d. l. n. 34/2014 cit., lo contemperasse con la gestione di una crisi occupazionale, prevedendo, ad esempio, contratti a termine di durata maggiore rispetto a quella legale in luogo di sventati licenziamenti collettivi o mancati rinnovi.
Inoltre, il ragionamento del Ministero potrebbe perdere incisività se sottoposto all’ipotesi di una diversa modulazione della clausola di contingentamento, mancando la risposta al quesito di un chiarimento in ordine al merito di detto limite: seguendo la motivazione all’interpello, infatti, verrebbe da chiedersi se l’innalzamento del tetto del 20% alla stipula di contratti a termine fino al limite del 99% possa costituire un ragionevole esempio di osservanza dei precetti comunitari e non piuttosto la paradossale conclusione cui il ragionamento ministeriale sembra condurre.
In conclusione, se le esigenze sottese alla risposta ministeriale consistevano nella condivisibile conferma dell’impostazione comunitaria sull’eccezionalità del ricorso al rapporto di lavoro a termine rispetto alla normalità di quello a tempo indeterminato, sarebbe stato preferibile dirimere il dubbio interpretativo valorizzando la ratio di fondo dell’accordo quadro e della direttiva, non già i singoli, e perfino mutevoli, adattamenti normativi di tali precetti ad opera degli Stati membri.
Giovanna Carosielli
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@GiovCarosielli
Paolo Tomassetti
ADAPT Research Fellow
@PaoloTomassetti
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La (limitata) derogabilità del ricorso al contratto a termine nell’interpretazione ministeriale