“Basta un niente oggi per diventare poveri: la perdita del lavoro, una malattia in famiglia, persino la nascita di un figlio”. E mentre Papa Francesco era impegnato a farci riflettere, una volta ancora, sul lavoro come bisogno materiale e spirituale della persona, l’intera opinione pubblica veniva distratta dalla battuta di Matteo Renzi sul sindacato: “mi piacerebbe che, prima o poi, si arrivasse al sindacato unico”.
Una provocazione? L’anticipo di quella che sarà l’attesa legge sulla rappresentanza a conclusione del processo di riforma avviato col Jobs Act? Difficile dirlo ora. Eppure, mentre troppe persone ancora vivono in condizioni di sofferenza e si attendono risposte concrete sulle difficoltà che spesso nascono dalla assenza di un lavoro decente e dignitoso, l’abilità italiana di creare polemiche di cui non si sente bisogno rischia di farci perdere la vera essenza del problema del lavoro.
Che è poi il crescere incessante della povertà. L’emersione di nuove ingiustizie sociali spesso consumate nei luoghi di lavoro e in processi economici ancora improntati alla legge del più forte e poco o nulla capaci di far emergere le istanze di solidarietà che pure ancora animano gran parte della popolazione.
Anche per questo un discorso sul sindacato va affrontato seriamente. Perché la crisi oggettiva e conclamata di una rappresentanza sindacale, sempre più incapace di rispecchiare la realtà e intercettare i nuovi bisogni che emergono dal e nel lavoro, è un problema e non certo un motivo di soddisfazione almeno per quanti credono nei valori della sussidiarietà e della dignità del lavoro, di qualunque lavoro.
Invero, è da tempo che si parla di sindacato unitario, e la proposta di una legge sulla rappresentanza è fatta propria anche da una parte del sindacato, ma quella del sindacato unico è una vera e propria novità all’interno del dibattito recente. Concesso il diritto all’errore, la confusione tra unitario e unico è un lapsus che consente di cogliere il modello di relazioni industriali che parte del governo vorrebbe instaurare nel nostro Paese.
Il problema, tra i tanti, è che questo significa negare la storia italiana fin dalle sue origini. Infatti il movimento sindacale nacque da coloro, sia cattolici che socialisti, che sul finire del diciannovesimo secolo iniziarono a sviluppare un modello di risoluzione dei conflitti sociali che potremmo definire sussidiario, ossia affrontato a livello di rapporti tra lavoratori e impresa senza il ruolo preponderante, e in quel periodo ingombrante, dello Stato.
Si veniva così a creare un sindacato plurale, seppur per un ampio arco temporale unitario, che rappresentava i diritti e le rivendicazioni dei lavoratori stessi, che non sempre coincidono tra loro.
Oltre ad una cesura con il passato l’ipotesi del sindacato unico appare alquanto miope nei confronti del futuro del lavoro.
In un’epoca in cui nascono quotidianamente nuovi mestieri e ne muoiono altri, in cui il mercato del lavoro è sempre più alla ricerca di figure specifiche e sempre meno standardizzate, in cui nuovi mestieri non sono spesso tutelati poiché diversi da quelli storicamente al centro dell’azione sindacale sembra poco efficace, se non dannosa, la strada verso un unico sindacato.
Una questione che dovrebbe quindi interessare non solo i sindacati stessi ma anche coloro, come gli intellettuali liberali, che hanno a cuore l’alleggerimento dei lacci che spesso legano governo centrale e realtà individuali, sia territorialmente che, come in questo caso, economicamente.
Non che il sindacato non abbia le proprie colpe, come il fatto del proliferare di numerosissime piccole sigle, l’aver costruito architetture burocratiche verticistiche, l’essere spesso chiusi verso nuovi mestieri e tutto ciò che non rientra nelle loro battaglie tradizionale.
Ma le recenti esperienze straniere, quella americana in particolare, mostrano proprio che una delle possibilità di rinnovamento del movimento sindacale è proprio nella ricchezza di nuovi gruppi e associazioni di lavoratori che, nel tentativo di rappresentare il nuovo lavoro, scardinano i sistemi tradizionali di rappresentanza imponendo quanto meno una riflessione sul cambiamento.
In questa prospettiva, la domanda di fondo è sempre la stessa e non può che essere incentrata sulla libertà e la dignità della persona che lavora: è il sindacato fattore di giustizia sociale e di protezione dei più deboli, e come tale da sostenere, o rischia di diventare una pesante macchina burocratica che finisce con l’allontanarsi della persone che dichiara di voler rappresentare e tutelare?
Francesco Seghezzi
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
@francescoseghez
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico di ADAPT
@Michele_ADAPT
* Pubblicato anche in Corriere della Sera, La Nuvola del lavoro, 29 maggio 2015.
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La non modernità del sindacato unico