La nuova definizione della “condizione di disabilità”: implicazioni e procedure ex. D.Lgs. n. 62/2024

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Bollettino ADAPT 1° luglio 2024 n. 26
 
La nuova definizione di disabilità
 
Uno degli aspetti più significativi e qualificanti del D.Lgs. n. 62/2024 riguarda, certamente, la definizione della «condizione di disabilità». In particolare, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera a), questa deve ora intendersi come la «duratura compromissione fisica, mentale, intellettiva, del neurosviluppo o sensoriale [della persona] che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri».
 
Il tratto innovativo di tale definizione risiede, in particolare, nella valorizzazione del carattere “relazionale” della disabilità, reso esplicito dal richiamo alla «interazione» con i fattori – ambientali, culturali, sociali e comportamentali – presenti nell’ambiente circostante.
 
Per comprendere la portata della riforma, è opportuno ricostruire brevemente il quadro regolatorio su cui questa si è innestata.
 
In questa direzione, il punto di partenza non può che essere rappresentato dall’evoluzione del sistema classificatorio elaborato, in materia, dalla Organizzazione Mondiale della Sanità. Inizialmente, secondo il cd. “modello medico” (ICDIH, 1980), la disabilità era percepita quale sinonimo di menomazione e, pertanto, equiparata a un «limite rispetto alla capacità di compiere un’attività della vita quotidiana nella maniera considerata normale per un essere umano».
 
Questa interpretazione (restrittiva) si affiancava alla incertezza definitoria rinvenibile a livello europeo, dal momento che né la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (artt. 21 e 26), né la Direttiva 2000/78/CE avevano provveduto a fornire una definizione di disabilità. Dacché, aderendo all’impostazione “medica” dell’O.M.S. e alle prime pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione ([1]), le definizioni accolte a livello nazionale avevano posto l’accento solamente sugli elementi che condizionano in negativo la vita della persona (ossia le limitazioni psicofisiche e lo svantaggio sociale che ne deriva), trascurando l’influenza dell’ambiente nel quale essa è inserita.
 
A tal proposito, muovendo dalle principali fonti in materia – e limitando l’osservazione ai concetti di «handicap» e «disabilità» in ambito lavoristico – occorre rammentare come la L. n. 104/1992 «per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate» abbia associato tale caratteristica personale alla «minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione» (art. 3, versione originaria). In termini simili, la successiva L. n. 68/1999, recante «norme per il diritto al lavoro dei disabili» ha perimetrato il proprio ambito applicativo «a) alle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e ai portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento; b) alle persone invalide del lavoro [in misura] superiore al 33 per cento; c) alle persone non vedenti o sordomute; d) alle persone invalide di guerra» (art. 1).
 
Ben può comprendersi come il filo rosso che lega le definizioni qui proposte sia rappresentato dalla aderenza al cennato modello “medico” e, quindi, a un approccio incapace di cogliere i processi di esclusione determinati dalle barriere presenti nell’ambiente esterno.
 
Senonché, le critiche mosse all’originario sistema classificatorio, portarono l’O.M.S. alla predisposizione del cd. “modello bio-psico-sociale” (ICF, 2001), decretando una decisiva inversione di marcia nel modo di concepire la disabilità, intesa quale «conseguenza […] di una complessa relazione tra la condizione di salute [della persona] e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui [essa] vive». Il definitivo mutamento di paradigma si è, però, registrato con la Convenzione delle Nazioni Unite «sui diritti delle persone con disabilità» – adottata il 13 dicembre 2006 ed entrata in vigore il 3 maggio 2008 – ove è stata proposta una definizione in termini relativi [Preambolo, lett. e)], ossia rispetto all’«interazione» fra le «durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali» e le «barriere di diversa natura» che ne ostacolano «la piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri» (art. 1, c. 2).
 
Dopo aver partecipato attivamente alla fase di negoziazione, l’Unione europea ha aderito alla Convenzione, stimolando un nuovo orientamento in capo alla Corte di giustizia, in virtù del quale la disabilità non può essere più misurata a priori, ma esclusivamente in fieri ed ex post, in funzione del rapporto con l’ambiente in cui dovrà collocarsi la persona con limitazioni funzionali ([2]).
 
Benché la Convenzione ONU sia stata ratificata e resa esecutiva anche in Italia (ex L. n. 18/2009), il legislatore nazionale aveva mostrato una certa reticenza all’accoglimento di un simile approccio, che si è perpetuata sino al percorso che ha portato alla «Delega al Governo in materia di disabilità» (contenuta nella L. n. 227/2021), Il decreto legislativo n. 62/2024, attuativo della Delega, fa, dunque, breccia nella staticità del quadro normativo preesistente, ridefinendo la «condizione di disabilità» con una terminologia finalmente conforme al diritto internazionale. Il provvedimento non si è, però, limitato al piano della forma, ma è anche intervenuto su quello della sostanza: infatti, la definizione proposta novella quella contenuta nell’art. 3, L. n. 104/1992, individuando la «persona con disabilità» in «chi presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri, accertate all’esito della valutazione di base» (art. 3, c. 1, D.Lgs. n. 62/2024). In questo modo, come meglio si dirà a breve, l’ordinamento nazionale ha, finalmente, recepito il “modello bio-psico-sociale” della disabilità, anche ai fini dell’accesso alle prestazioni assistenziali.
 
Impatto della ridefinizione di disabilità
 
Se l’art. 2, D.Lgs. n. 62/2024 fornisce le “definizioni chiave” in tema di disabilità, è il successivo art. 3 a definire la persona con disabilità, occupandosi di introdurre importanti modifiche alla L. n. 104/1992, al fine di aggiornarne la rubrica, la definizione di persona con disabilità e i diritti correlati, nonché di specificarne il livello di sostegno necessario, la nozione di sostegno intensivo e le priorità nei servizi pubblici.
 
L’art. 3, c. 1, del decreto legislativo in esame, nel modificare l’art. 3, c. 1, L. n. 104/1992, sostituendo l’espressione «persona handicappata» con quella di «persona con disabilità», conferma la scelta di rimuovere ogni disvalore che presentava la precedente nozione di disabilità, uniformandosi alle ultime evoluzioni sul tema.
 
Coerentemente con tale impostazione, nei successivi commi 2 e 3, l’art. 3, D.Lgs. n. 62/2024 ha introdotto ulteriori modifiche volte a rendere organico l’apparato normativo. In particolare, revisionando le condizioni di accesso alle prestazioni assistenziali previste in precedenza, si ammette, al comma 2, il diritto a tali prestazioni in relazione al livello di necessità di sostegno e si prevedono, al comma 3, in caso di compromissioni che abbiano ridotto l’autonomia personale in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, il sostegno intensivo e le priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici.
 
In virtù della nuova definizione adottata, dunque, la gradazione della tutela non è più basata, come accadeva in precedenza, sulla gravità della menomazione, ma sul quantum di sostegno è necessario al fine di assicurare la partecipazione della persona all’interno della società e ai fini della realizzazione di un progetto di vita.
 
Tale visione appare concorde con il principio di uguaglianza sostanziale previsto dall’art. 3, comma 2 della Costituzione, consentendo di rimuovere quegli ostacoli derivanti dalla specifica condizione psico-fisica del soggetto. Vengono, dunque, individuate due tipologie di sostegno, una “non intensiva” e l’altra “intensiva”, entrambe declinate in due livelli di intervento. Il sostegno non intensivo può essere di livello lieve o medio, mentre il sostegno di tipo intensivo può essere di livello elevato o molto elevato. Non ancorando l’intervento dell’ordinamento alla condizione personale del soggetto e alla relativa gravità della menomazione, si consente una maggiore discrezionalità, che permette anche un ampliamento della tutela e una sua proporzionalità e adeguatezza al caso concreto. Ciò si rinviene, come anticipato, in particolare al terzo comma dell’articolo in esame il quale ammette un sostegno intensivo e la priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici nei casi in cui la «compromissione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione».
 
È in ogni caso opportuno evidenziare che, dal descritto mutamento della nozione interna di disabilità, derivano effetti sulle disposizioni che alla stessa disabilità fanno riferimento. La nuova nozione delineata dall’art. 3, L. n. 104/1992, infatti, non si limita all’importante evoluzione sul piano definitorio, ma produce un impatto su tutte le disposizioni dell’ordinamento che ad essa fanno riferimento per riconoscere diritti e attribuire tutele specifiche in connessione alla condizione soggettiva della persona con disabilità. La modifica dell’art. 3, L. n. 104/1992 ad opera dell’art. 3, D.Lgs. n. 62/2024, dunque, ha una rilevanza capillare, atteso che sono molte le disposizioni che all’art. 3 (e soprattutto al suo co. 3), L. n. 104/1992 rinviano.
 
Per restare alla sola disciplina giuslavoristica, è da considerare in primo luogo la normativa in materia di permessi approntata dalla stessa L. n. 104/1992 all’art. 33, che accorda speciali ore di permessi al lavoratore disabile nonché al lavoratore chiamato a prestare assistenza ad un disabile in connessione alla condizione soggettiva definita dall’art. 3, co. 3. In questo caso, dunque, la nuova nozione di disabilità potrà produrre effetti accordando permessi a lavoratori che in precedenza non rientravano nel perimetro dell’art. 3, co. 3.
 
Allo stesso modo, anche su altri istituti del diritto del lavoro – come i congedi, il lavoro notturno o i diritti di scelta della sede di lavoro, di priorità nell’accesso al lavoro agile e di rifiutare il trasferimento – che rinviano (con l’eccezione dell’art. 11 D. Lgs. n. 66/2003 che, per il lavoro notturno, rinvia alla generale nozione di disabilità) all’art. 3, co. 3 per accordare specifiche tutele al lavoratore, la modifica della nozione di disabilità è idonea a produrre effetti, allargando l’accesso alla disciplina differenziata in casi in cui il lavoratore presenti in prima persona o sia chiamato a prestare assistenza ad un soggetto che presenti compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che ne ostacolino la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri e che, ai sensi dell’art. 3, co. 3 come da ultimo modificato, ne abbiano «ridotto l’autonomia personale, (…) in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione».
 
In questo senso, quindi, la modifica della nozione di disabilità è idonea ad allargare il perimetro dei soggetti beneficiari delle tutele, ma, per questo, è fondamentale, come si avrà modo di precisare, analizzare le innovazioni introdotte in materia di procedimento di accertamento, poiché, oltre che sul suo oggetto, ossia la stessa condizione di disabilità, il D.Lgs. n. 62/2024 ha notevolmente inciso anche sulla sua struttura.
 

L’accertamento della condizione di disabilità
 
Strettamente legate alle novità sul piano definitorio, sono le innovazioni che riguardano la valutazione di base, ossia il procedimento attraverso il quale vengono individuate le necessità di sostegno della persona con disabilità.
 
Anche in questo campo, si assiste a un notevole cambio di passo nella disciplina, che, tuttavia, avverrà in maniera graduale. Le nuove disposizioni sul punto, infatti, entreranno in vigore in via sperimentale in alcune province a partire dal 2025, per poi essere operative nell’intero contesto nazionale dal 2026, fatto salvo l’intervento di eventuali decreti correttivi. Nell’attesa di verificare sul campo i primi esiti operativi, ben possono comprendersi le principali direttrici di intervento che ispirano gli artt. da 5 a 16, D.Lgs. n. 62/2024, su cui si fonda il capo II del nuovo decreto, nell’ottica di evidenziare, in particolare, cosa cambi rispetto alle regole previgenti.
 
Il primo elemento di rilievo riguarda la predisposizione di una procedura valutativa unica, che realizza in un solo procedimento tutte le valutazioni di base relative all’accertamento della disabilità. A partire dal 2026, quindi, sarà in vigore un’unica procedura per tutti gli istituti, dall’accertamento dell’invalidità civile all’individuazione degli elementi utili alla definizione della condizione di disabilità gravissima, che precedentemente erano oggetto di valutazioni distinte, generali o mirate.
 
Coerentemente con questa nuova impostazione – e con la richiesta, già espressa nella legge delega n. 227/2021, di «uniformare, semplificare e razionalizzare gli aspetti procedurali e organizzativi» – l’intera procedura è affidata all’INPS, che assurge, così, a «soggetto unico accertatore». Dal 2026, quindi, cesserà l’attuale doppia fase di accertamento (caratterizzata da un preliminare intervento delle commissioni integrate ASL-INPS, poi validato da un’altra commissione INPS), per lasciare spazio a un unico accertamento dell’INPS, che sarà responsabile dell’intera gestione del procedimento per la valutazione di base.
 
Le istanze semplificatorie trovano concretezza anche nella composizione delle commissioni, allorché queste saranno composte da due medici e una figura professionale appartenente alle aree psicologiche e sociali, sempre nominati dall’ INPS, a cui si aggiunge un medico in rappresentanza delle associazioni di categoria: una struttura più complessa caratterizza, invece, l’attuale regime delle commissioni ASL e INPS, composte da sette membri (cinque medici, un operatore sociale e uno specialista del caso da esaminare).
 
Di particolare rilievo sono, altresì, le novità riguardanti i criteri di valutazione della condizione di invalidità o disabilità. L’intero processo valutativo sarà orientato, secondo quanto stabilito da un successivo decreto ministeriale, sulla base della Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (International Classification of Functioning, Disability and Health o ICF), e della Classificazione internazionale delle malattie (ICD) adottate dall’O.M.S (modello bio-psico-sociale, di cui supra). Entrambi i sistemi classificatori non paiono di semplice utilizzo, e sul punto, oltre alle dovute indicazioni a livello ministeriale, occorrerà un’ampia formazione degli operatori.
 
Consapevole di tali criticità, il legislatore ha stabilito che, per i procedimenti di valutazione, sarà utilizzato anche il WHODAS, un questionario sviluppato dall’O.M.S. (partendo proprio dall’ICF), volto a misurare la salute e la condizione di disabilità in modo standardizzato e transculturale sulla base di diversi ambiti della vita quotidiana e delle relazioni. Lo strumento è già stato oggetto di prime sperimentazioni in 4 regioni italiane, con primi esiti positivi sulla valutazione della reale esperienza di disabilità, anche se per una sua piena operatività andranno meglio definiti i criteri di classificazione dei livelli di disabilità e i meccanismi di coordinamento con la valutazione medica.
 
Francesco Alifano

PhD Candidate ADAPT – Università di Siena

@FrancescoAlifan
 
Michele Dalla Sega

Assegnista di ricerca
Università degli studi di Udine

@Michele_ds95
 
Massimiliano De Falco

Assegnista di ricerca
Università degli studi di Udine

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Francesca Di Gioia

PhD Candidate ADAPT – Università di Siena

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Tabata Maini   

Apprendista di ricerca presso ANCL
Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è X-square-white-2-2.png@TabataMaini
 
[1] Nel 2006, i giudici di Lussemburgo, chiamati a pronunciarsi per la prima volta sulla questione qualificatoria, avevano interpretato la nozione di «handicap» (di cui all’art. 1, Dir. 2000/78/CE) «come un limite che deriva, in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale» (CGUE, 11 luglio 2006, C-13/05, Chacòn Navas, p. 43), evidenziando, altresì, come gli effetti sulle sue capacità dovessero possedere carattere duraturo (ivi, p. 45).

[2] A seguito dell’adesione alla Convenzione ONU, la Corte di giustizia ha chiarito come la disabilità debba intendersi come una «limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che in interazione con barriere di diversa natura può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori» (CGUE, 11 aprile 2013, C-335/11 – C-337/11, HK Danmark).

La nuova definizione della “condizione di disabilità”: implicazioni e procedure ex. D.Lgs. n. 62/2024