Con l’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act sono esplose tutte le contraddizioni politiche e sindacali che, per decenni, hanno bloccato il processo di modernizzazione del nostro mercato del lavoro. Le nuove regole potranno non piacere a tanti perché liberalizzano in maniera forse troppo spinta il mercato del lavoro.
Eppure proprio questa svolta può essere l’occasione per una nuova stagione che metta al centro del lavoro le persone più che le regole e i formalismi giuridici. Perché il lavoro è innanzitutto relazione. E solo una riscoperta della dimensione soggettiva e relazionale può fare la differenza tra una logica mercenaria e di sfruttamento e una dimensione di pieno sviluppo della persona e della comunità a cui si appartiene attraverso il lavoro.
La vera sfida del Jobs Act è tutta qui, nella capacità di costruire solide relazioni tra datore di lavoro e lavoratori, secondo una visione condivisa e partecipata. Il merito della riforma non sta certamente nel grado di liberalizzazione dei licenziamenti quanto nell’aver posto lavoratori e imprese di fronte alle rispettive responsabilità nella costruzione di un bene comune che sia reale e non solo declamato.
Compito delle istituzioni pubbliche non è quello di sostituire l’autonomia e la libertà dei singoli con un quadro di regole ingessato che deresponsabilizzano le persone.
La grande responsabilità della politica è semmai quella di “non perdere per strada nessuno” in questa grande trasformazione del lavoro, perché troppo spesso ci siamo occupati del grado di tutele formali di chi lavora dimenticando che quasi la metà della popolazione in età di lavoro è senza occupazione e messa ai margini della società e della economia. Sono gli inattivi, i disoccupati, i gruppi svantaggiati e i giovani che vivono ogni giorno i drammi della assenza di un lavoro e delle relazioni che in esso nascono.
Non si tratta di una responsabilità facile, né da prendere a cuor leggero. Il magistero di papa Francesco ci ha ricordato spesso come la mancanza di lavoro vada a colpire la dignità stessa della persona. Per questo il Jobs Act può essere uno spunto importante. Al nostro Paese serve una nuova visione del lavoro che rimetta al centro la persona del lavoratore, le sue competenze, la sua creatività.
Usiamo il termine persona non a caso, infatti la figura del lavoratore che si delinea è molto lontana dall’individuo egoista immaginato dai teorici del capitalismo del secolo scorso. La centralità delle competenze vive e si alimenta di relazioni, oggi più semplici attraverso la possibilità di condivisione libera e immediata di informazioni che un tempo erano appannaggio di categorie chiuse e gelose di esse.
Le esperienze di coworking (il lavoro comune di professionisti e operatori che in genere non appartengono a una stessa organizzazione) , le piattaforme di collaborazione online e il fatto stesso che molte delle start up (imprese in fase di avvio) che creano lavoro nell’economia occidentale si basino sulla cosiddetta sharing economy (l’economia della condivisione) sono dimostrazione di questo. Il modello del lavoro dipendente, del resto, sta oggi vivendo una crisi evidente e profonda a causa delle novità tecnologiche e dei notevoli cambiamenti demografici.
È difficile immaginare lo stesso impiego per tutta la vita, o anche sono per dieci anni. Si lavora e si lavorerà sempre più per progetti, missioni, risultati precisi e valutabili nel breve termine.
Questa è la sfida raccolta e rilanciata da Matteo Renzi. Ma senza responsabilità e reali politiche attive e di inclusione le nuove libertà che il lavoro offrirà rischiano di essere privilegio per pochi. Conciliare questi due aspetti significa oggi sviluppare politiche attente alle categorie – come donne e giovani – che rischiano di rimanere indietro. Dopo il Jobs Act le responsabilità di ciascuno di noi sono più chiare e davvero non abbiamo più alibi: una nuova visione del lavoro è più urgente che mai.
Francesco Seghezzi
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
@francescoseghez
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico di ADAPT
@Michele_ADAPT
Pubblicato anche in Avvenire, 24 febbraio 2015.
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La persona torni al centro del lavoro