La consueta pubblicazione mensile dei dati Istat su occupati e disoccupati di ieri è stata l’occasione per Matteo Renzi per invitare quanti “vanno nei talk show a dire numeri a caso” ad un “confronto all’americana”. Perché “non sanno questi amici- scrive Renzi nella sua e-news – che anche nel tempo della post-verità le bugie continuano a chiamarsi bugie”.
L’ex Presidente del Consiglio ha quindi già scelto: i suoi interlocutori sono autori non solo di fake news (notizie montate ad arte), bensì di vere e proprie bufale. Non si capisce allora perché Renzi usi il termine “confronto”. Pare invece più pertinente il riferimento di Renzi all’America, non per le modalità alle quali allude, ma perché proprio a stelle e strisce è il politico che più di tutti sta utilizzando una strategia accusatoria molto simile a quella di Renzi. Si chiama Donald Trump, e nello stupore generale, è sempre più concentrato a denunciare i media corrotti e bugiardi, manco l’America fosse (o, d’altro canto, come se fosse già) un regime illiberale e antidemocratico. Tanto che dopo la “morte di dio” il britannico Time nell’ultimo numero si chiede se non sia ormai morta anche la “Verità”.
L’efficacia di questa strategia, condotta in modo tanto sistematico quanto ossessivo, è nel suo essere disarmante, nel suo collocarsi completamente fuori dal piano di qualsiasi dialettica possibile, perché non importa tanto quale sia la verità, ma importa più semplicemente che tutto ciò che non proviene dal politico, unica istanza enunciatrice di senso, sia falso e per giunta malintenzionato. In tal modo al pubblico sarà sempre più facile e più piacevole credere proprio a ciò che è più facile e più piacevole credere. Indipendentemente da quale sia il rapporto tra i fatti e le emozioni suscitate dai loro racconti, sono queste ultime a dare forma all’opinione pubblica in quella che, forse frettolosamente, è già stata definita “era della post-verità”.
A ben vedere però, almeno in tema di lavoro, il primato nel denunciare l’esistenza di un vero e proprio fronte di creatori di bufale è di Renzi, che ai “numeri sul lavoro” dedicava la sua prima puntata contro “le balle” circolanti contro il suo Governo. Era circa un anno fa, il 19 marzo 2016.
Tutta basata sulla preferibilità emotiva della stabilità del lavoro era poi stata la promozione del Jobs Act di fronte ai numeri dell’occupazione, già dal 26 marzo 2015. Dal punto di vista qualitativo Renzi ha infatti sempre sottolineato gli effetti sulla vita concreta delle persone contrapponendo la fredda esattezza del numero al luogo della persona, ora abilitata ad avere un mutuo, una famiglia, a poter andare in vacanza. Concetto ribadito almeno in 25 messaggi pubblici diversi.
Matteo Renzi, come nel caso del referendum costituzionale, è anche in questo senso una sorta di Heautontimorumenos, perché evoca una post-verità che egli stesso ha contribuito a promuovere con la sua comunicazione politica. Ossia inasprendo quella guerra dei dati sul lavoro che ha ormai
raggiunto nelle sue parole un tale livello di sclerotizzazione da pregiudicare la possibilità di qualsiasi dibattito costruttivo.
Tutto si può dire, e su molte questioni si può dare ragione a Renzi. Per esempio sul fatto che sia inutile piangersi addosso e vestire l’italicissimo vestito di sacco intonando le litanie del “non cambieremo mai”. Altra cosa è dire che l’Italia si divide nei veri e puri dei numeri e dei fatti da una parte e nei sovversivi mistificatori dall’altra. Anzi, proprio la convinzione che il nostro Paese sia fornito di molte delle doti che servono a risollevare le sorti del lavoro (che in Italia equivale a dire “della Repubblica”) è la premessa per un dibattito serio sulle misure che ancora servono all’occupazione, a partire da quella giovanile. Una premessa necessaria ma non sufficiente se non si assume però anche come presupposto l’utilità delle visioni alternative e si preferisce invece perseguire una strategia polemica sempre e solo uguale a sé stessa. “Perché possono dire tutti quello che credono: ma il Jobs Act – scrive Renzi- funziona, ormai negarlo è impossibile, amici”.
Renzi non pare quindi volersi porre effettivamente come un interlocutore ragionevole, mentre l’auspicio è che lo restino i tecnici, ora al servizio del governo Gentiloni. Sperando che la frattura visibile tra la comunicazione del politico Renzi e dei vari tecnici di Palazzo Chigi non si riproduca anche con l’attuale Presidente del Consiglio. Seguendo infatti per la prima volta lo stile di Renzi sul lavoro, il premier Paolo Gentiloni è incappato nella sua prima gaffe in materia, con diverse testate a ricordargli che non valeva la pena festeggiare un calo della disoccupazione giovanile determinato in buona sostanza da un aumento dei giovani inattivi. Un peccato, dal punto di vista comunicativo, perché il calo del numero di inattivi è il trend di lungo periodo che costituisce l’aspetto probabilmente più felice del mercato del lavoro Italiano, mentre l’uscita di Gentiloni ha finito per gettare luce su un dato mensile che pare controvertire questo andamento. Una conferma, una volta di più, che l’enfasi e il conflitto sono spesso controproducenti.
Numero degli inattivi, dati destagionalizzati, 2007-2016, Istat
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo