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Bollettino ADAPT 3 aprile 2023, n. 13
La previdenza complementare rappresenta un importante strumento assicurativo per il futuro dei lavoratori, di sostenibilità del sistema pensionistico, nonché di intermediazione e d’investimento che incide (seppure indirettamente) sull’occupazione (cfr. G. Cazzola, M. Saccaggi, Previdenza complementare: una grande illusione o una scelta strategica incompiuta?, Working Paper ADAPT n. 3/2016). Secondo l’ultima Nota Covip, a tutto il 2022, gli iscritti alle forme pensionistiche complementari sono ben 9,2 milioni, in crescita di oltre 5 punti percentuali rispetto all’anno precedente, con un totale di contributi incassati dagli enti che si aggira attorno ai 13,9 miliardi di euro. I dati mostrano dunque un fenomeno in costante crescita che sta iniziando ad interessare più del 35% del totale della forza lavoro (vedi anche Audizione del Presidente della Covip Mario Padula).
Numerose sono le riflessioni che interessano il fenomeno e il dibattito è vivace su molti fronti. Una delle questioni che interessa la platea di lavoratori iscritti alle forme di previdenza complementare è il caso dell’omissione contributiva.
Innanzitutto, il mancato versamento dei contributi destinati alla forma di previdenza configura un inadempimento contrattuale. Nello specifico, il fatto si realizza quando il datore di lavoro, “dopo aver sottoscritto la domanda del lavoratore di adesione ad un Fondo di previdenza complementare ed aver effettuato le relative trattenute sulla retribuzione dovuta al lavoratore stesso, ometta di versare dette somme in favore del fondo” (Trib. Roma, sez. lavoro, sent. n. 10489/2016).
La questione relativa agli strumenti di tutela non è però di semplice lettura, come peraltro recentemente ricordato anche dall’ordinanza del 13 maggio 2020 promossa dal Tribunale di Sassari. La questione è infatti assai rilevante anche sul piano delle attese sinergie tra primo e secondo pilastro della previdenza.
Tra i numerosi nodi giuridici da sciogliere, si vogliono qui richiamare almeno tre questioni dirimenti per i lavoratori che si apprestano a proporre un’azione giudiziale contro il datore di lavoro inadempiente: la titolarità del rapporto giuridico, l’esigibilità del credito e i danni conseguenti agli omessi versamenti.
In primo luogo, data la natura trilaterale del rapporto giuridico – che vede la compresenza del Lavoratore, del Fondo pensione e del Datore di lavoro – giunge naturale interrogarsi su chi sia il titolare del rapporto giuridico, e quindi il soggetto legittimato ad agire per veder riconosciuto il versamento dei contributi. È un aspetto controverso che non trova ad oggi nell’ordinamento italiano una chiara e specifica indicazione.
Nella volontà di affrontare quest’aspetto, si rileva che nell’ambito della disciplina di riferimento vi sono disposizioni che riconoscono in capo al lavoratore la titolarità del diritto alla contribuzione, o quantomeno la contitolarità con la forma pensionistica.
In questa direzione, si richiama innanzitutto al Legislatore della Legge delega n. 243/2004, il quale all’art. 1 dichiara espressamente che ai fondi pensione spetta la “contitolarità con i propri iscritti del diritto alla contribuzione, compreso il trattamento di fine rapporto cui è tenuto il datore di lavoro”.
Come è noto, tale previsione non ha però trovato attuazione nell’ambito del successivo D.lgs. 252/2005, né è stata tuttavia esplicitamente smentita, tanto che per parte della dottrina in talune circostanze non è nemmeno necessaria la presenza del Fondo in giudizio. Il lavoratore potrebbe infatti agire per la mera regolarizzazione della sua personale posizione contributiva, in quanto si potrebbe ritenere leso non un diritto del Fondo, ma il suo diritto alla regolarità contributiva (App. Reggio Calabria, 18 febbraio 2021, n. 78).
Tuttavia, a riprova del carattere tutt’altro che pacifico della questione, il delicato problema concernente l’individuazione del soggetto legittimato è stato interpretato da altra giurisprudenza con orientamenti diversi, negando la titolarità in capo al lavoratore e riconoscendo invece la titolarità del Fondo.
In particolare, ci si riferisce qui alla dottrina che inquadra la suddetta questione entro gli schemi privatistici della cessione del credito, ritenendo che il cessionario (Fondo Pensione) possa godere degli stessi diritti e facoltà del creditore cedente (Lavoratore). Da tale orientamento, il titolare del diritto di credito – e quindi il soggetto legittimato ad agire – sembrerebbe essere il Fondo Pensione, e non il lavoratore.
Per poter dar conto però dell’applicazione o meno dello schema della cessione del credito, ci sono degli elementi da considerare, in primis il contenuto dell’accordo sottoscritto (o Modulo di Adesione) tra lavoratore e Fondo Pensione.
Parte della dottrina che sostiene la legittimazione esclusiva del Fondo riconosce tuttavia la possibilità per i lavoratori di esperire l’azione surrogatoria ex art. 2900 cod. civ., una volta convenuti in giudizio sia il datore di lavoro sia il Fondo di previdenza complementare, in ragione della comprovata inerzia di quest’ultimo nel riscuotere i contributi (Trib. Novara 2 luglio 2019, n. 157; Trib. Palermo 8 luglio 2020, n. 2035). Proprio in caso di inerzia del Fondo, il lavoratore o la lavoratrice hanno nei fatti sempre la possibilità di promuovere un’azione di condanna in favore di terzo (Trib. Novara 4 novembre 2021, n. 254; Trib. Roma 15 marzo 2016).
Dato il carattere non pacifico della questione, sembra quantomeno però opportuno che i lavoratori chiamino in giudizio anche il Fondo, il quale si dichiara “disponibile” a ricevere le somme in favore del dipendente (Trib. Piacenza 19 novembre 2019, n. 168).
Infine, bisogna sempre tenere presente che quando il lavoratore agisce in surroga per ottenere la condanna al pagamento dei contributi al Fondo di previdenza complementare, occorre distinguere se l’azione viene promossa a rapporto in corso o a rapporto cessato. Da questa situazione dipende infatti la possibilità di chiedere l’ulteriore accertamento del danno previdenziale ex art. 2116, comma 2 cod. civ. (chiarissimo sul punto App. Reggio Calabria, 18 febbraio 2021, n. 78…”Il danno da omesso versamento dei contributi è inoltre, allo stato, solo potenziale, occorrendo che l’inadempimento si sia perfezionato con il sopraggiungere dell’ultimo momento utile (cessazione dal servizio) e che la prestazione non possa più essere adempiuta perché prescritta. Non è dunque concessa all’attualità una condanna specifica. È tuttavia allo stato azionabile dal lavoratore la domanda di accertamento dell’inadempimento datoriale. Come visto supra, il lavoratore resta titolare del diritto alla regolarità contributiva. A fronte di tale violazione il lavoratore può esperire o un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c., ovvero di mero accertamento dell’omissione contributiva“).
Quanto detto vale per le omissioni “ordinarie”. In realtà, il problema delle omissioni contributive rileva soprattutto quando l’impresa per cui il dipendente lavora fallisce. Chi ha diritto ad inserirsi tra le schiere dei creditori per il pagamento dei debiti? Il lavoratore o il Fondo di previdenza complementare?
Qui la questione è, ancora una volta, controversa: secondo un primo orientamento, la legittimazione all’insinuazione al passivo deve essere riconosciuta sia al lavoratore sia al Fondo, “salva la necessità di verificare da parte del curatore, in sede di riparto, l’effettivo intervento del Fondo” (Trib. Treviso, 23 gennaio 2012); secondo altro orientamento, spetterebbe al Fondo di previdenza complementare entrare nella schiera dei creditori e pretendere il pagamento del TFR, salvo il caso in cui il rapporto trilatero impresa-lavoratore-fondo sia configurabile alla stregua di una delegazione di pagamento: in questo caso, il fallimento del datore di lavoro comporta lo scioglimento del contratto e il lavoratore ha diritto alla restituzione delle quote di TFR trattenute e non versate, attraverso l’ammissione allo stato passivo (Trib. Napoli Nord, Sez. III, 15 luglio 2015).
Con riguardo alle omissioni contributive nell’ambito di procedure concorsuali, si segnala qui un dato normativo a sostegno della legittimazione del lavoratore ad agire: la disciplina che regola l’accesso al Fondo di Garanzia Inps. Con Circolare n. 23 del 22 febbraio 2008, l’Istituto attribuisce chiaramente al lavoratore il diritto di chiedere l’intervento del Fondo, qualora il suo credito sia rimasto insoddisfatto all’esito di una procedura concorsuale. Conformi al medesimo orientamento anche le precisazioni fornite da Covip in risposta ad un quesito in materia di legittimazione all’insinuazione nello stato passivo della procedura fallimentare.
In secondo luogo, ancor più complesso è trovare risposta ai quesiti relativi all’esigibilità del credito, ossia al momento in cui si realizza la possibilità del lavoratore di riscossione. Stante i ragionamenti del primo punto, alla cessazione del rapporto di lavoro, gli omessi versamenti al Fondo possono essere oggetto di decreto ingiuntivo e di relativa procedura esecutiva da parte del lavoratore. Eppure, il ritardato o omesso versamento potrebbe costituire per il lavoratore (ma anche per il Fondo) un danno da mancato rendimento, già nel corso del rapporto di lavoro.
A tal proposito, è bene ricordare che l’omissione nella previdenza complementare si rileva normalmente alla scadenza della data di versamento prevista dallo statuto del fondo, il più delle volte considerata la trimestralità. Questo criterio è genericamente valido per l’omissione contributiva totalmente intesa (contributi correnti a carico azienda e a carico lavoratore e contributi legati alla quota di TFR).
Allo scadere del trimestre, quindi, laddove la contribuzione non sia stata versata, si realizza un ritardato o mancato versamento. Se è certamente vero che il lavoratore può sollecitare il datore di lavoro al versamento, compiendo atti interruttivi della prescrizione, è forse meno probabile che il lavoratore agisca anche con la richiesta di un decreto ingiuntivo in costanza di rapporto di lavoro. Ciononostante, la valutazione all’esercizio della facoltà di agire in giudizio è rimessa eventualmente alle forme di previdenza complementare. Ne è un esempio il Fondo Previndai (nato nell’ambito del Ccnl per i dirigenti di aziende industriali) che si attiva tempestivamente per il recupero dei contributi che vengono omessi.
Sebbene la questione presenti notevoli profili problematici, è in ogni caso indubbio quanto sia importante per il lavoratore essere informato tempestivamente sulla regolarità della propria posizione. In questo caso, il ruolo delle forme di previdenza complementare è fondamentale.
Ultimo spunto di riflessione, finora solo accennato, figura nelle conseguenze derivanti dagli omessi (o ritardati) versamenti al Fondo pensione. In modo consequenziale, dall’omissione contributiva hanno origine almeno due ripercussioni per il lavoratore: il mancato accumulo dei rendimenti connessi alle somme non versate e la lesione all’aspettativa della prestazione previdenziale individuale, oltre che delle altre possibili richieste di anticipazione o riscatto.
Normalmente, i Fondi prevedono al proprio interno un sistema di controllo delle irregolarità, segnalando direttamente alle aziende inadempienti il mancato versamento e il conseguente mancato rendimento. Ebbene, data la natura finanziaria dei rendimenti, una delle maggiori difficoltà deriva dalla quantificazione esatta del danno subito. In questo senso, diviene ancor più tortuosa la strada verso il riconoscimento giudiziale.
Relativamente alla quantificazione e alle conseguenze da mancato versamento, si segnalano però alcuni Fondi, tra cui Solidarietà Veneto, i quali prevedono un rimborso spese ulteriore a fronte del danno subito sia dall’iscritto, sia dal Fondo. Interessante è in questo caso evidenziare come il danno diretto all’iscritto sia il prodotto di un calcolo specifico, pari al valore massimo tra la perdita subita per la variazione del valore quota applicato e la rivalutazione del TFR nel medesimo periodo.
Da quanto si rileva, il quadro appare tutt’altro che semplice e il sistema di tutele ancora “fragile” rispetto a quello previsto per la previdenza obbligatoria (sul punto il Trib. Palermo 8 luglio 2020, n. 2035 ha il merito di precisare che “il rapporto previdenziale complementare – differentemente dal sistema pensionistico obbligatorio – non risponde al principio di automaticità della prestazione; ciò significa che al lavoratore verrà erogata la prestazione esclusivamente in proporzione alle quote effettivamente versate“). Se da un lato il legislatore e i principali operatori del mercato invitano i cittadini ad aderire a forme pensionistiche complementari, restano di fatto ancora alcuni nodi da risolvere.
Con le parole della Corte Costituzionale (sentenza n. 154 del 15.07.2021), non si può dunque “non osservare che la materia […] dovrebbe essere oggetto di una più attenta sistemazione da parte del legislatore”. In attesa di un intervento, diviene fondamentale affrontare efficacemente questi scenari, che lasciano ancora ampi spazi di incertezza, tanto per i lavoratori e i loro rappresentanti, quanto per i fondi pensione e per il decisore politico.
Anna Marchiotti
Scuola di dottorato in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena