Bollettino ADAPT 9 dicembre2024 n. 44
Tra le varie disposizioni su cui si articola il nuovo ddl Bilancio, presentato dal governo lo scorso 23 ottobre, non è passato inosservato l’articolo 28, dedicato alle “misure in materia di previdenza complementare”. Colpisce infatti, dopo anni in cui il capitolo “previdenza” delle varie leggi di bilancio è stato monopolizzato dalle misure riguardanti le pensioni pubbliche, il ritorno al centro dell’attenzione del c.d. secondo pilastro pensionistico, spesso evocato nel dibattito tra governo e parti sociali sulle possibili riforme del nostro sistema previdenziale, ma poi puntualmente trascurato nel momento di elaborare nuove disposizioni normative sul punto.
La nuova proposta merita quindi di essere analizzata sul piano tecnico, per provare a capire la strategia che il governo intende perseguire per rilanciare il ruolo dei fondi pensione nel nostro sistema previdenziale. Secondo quanto previsto dall’art. 28, comma 1 del disegno di legge, a partire dal 1° gennaio 2025 i lavoratori con primo accredito contributivo successivo al 1° gennaio 1996 iscritti ad una qualunque forma di previdenza complementare, per poter raggiungere l’importo soglia mensile richiesto per accedere alla pensione di vecchiaia potranno fare riferimento, oltre che all’ammontare mensile della prima rata di pensione di base, anche al valore teorico di una o più prestazioni di rendita di forme pensionistiche di previdenza complementare. In altri termini, i contributi versati ai fondi pensione saranno equiparati, per il solo fine del raggiungimento dell’importo soglia, ai contributi versati all’INPS. Sul piano operativo, secondo quanto precisato nella disposizione di legge proposta, il valore teorico delle rendite da prendere in considerazione sarà ottenuto trasformando il montante effettivo accumulato nelle forme di previdenza complementare con il valore dei coefficienti di trasformazione vigenti nel sistema INPS al momento del pensionamento.
Al di là dei tecnicismi su cui si fonda tale previsione – e fermo restando il fatto che sarà un decreto del ministro del lavoro a individuare i criteri e le modalità di attuazione della previsione – la novità proposta ha il merito di muoversi (finalmente) in una direzione coerente con quell’obiettivo di piena funzionalizzazione della previdenza complementare rispetto al sistema pubblico, che è alla base dell’ultima grande riforma sulla materia (D. Lgs. n. 252/2005) e che è stato ribadito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 393 del 2000.
Questo perché, concretamente, si instaura un dialogo tra sistema pubblico e fondi di previdenza complementare, introducendo la possibilità, per i lavoratori iscritti ai fondi pensione, di anticipare la propria uscita dal mercato del lavoro rispetto ai rigidi requisiti attualmente previsti per la pensione di vecchiaia.
Secondo le attuali regole previste dal D.L.n.201/2011, per i lavoratori assunti successivamente al 1° gennaio 1996 (i c.d. contributivi puri) per accedere alla pensione di vecchiaia non è sufficiente raggiungere – come invece accade per i lavoratori assunti precedentemente al 1996 – il requisito anagrafico di 67 anni, unito a un requisito contributivo minimo di almeno 20 anni. Qualora infatti la pensione non abbia raggiunto un ammontare pari a quello dell’assegno sociale (importo pari a 534,41 euro mensili per il 2024) sarà necessario attendere il raggiungimento dei 71 anni: oltrepassata questa età, sarà sufficiente aver maturato almeno 5 anni di contribuzione effettiva (obbligatoria, volontaria o da riscatto) per accedere al trattamento pensionistico.
La novità proposta dall’art. 28 del ddl bilancio, potrebbe tuttavia contribuire ad allineare i regimi di accesso alla pensione di vecchiaia dei contributivi puri (categoria alla quale la misura è rivolta in via esclusiva) rispetto alla restante parte della forza lavoro, visto che i contributi versati alla previdenza complementare potrebbero essere utilizzati per maturare l’importo-soglia, senza rendere necessario uno slittamento (di ben quattro anni, secondo le regole attuali) dell’età pensionabile. In questo modo, il legislatore mostra una possibile via per evitare, grazie al concorso dei fondi pensione, un ulteriore irrigidimento dei requisiti di accesso alla pensione pubblica nei prossimi anni, al fine di salvaguardare la sostenibilità del sistema.
È chiaro tuttavia che, una previsione di questo tipo, non può ritenersi sufficiente per promuovere quel cambio di passo che il nostro sistema di previdenza complementare non è ancora riuscito a compiere per rappresentare davvero il secondo pilastro del sistema pensionistico pubblico. Per farsi una prima idea dei tanti problemi che ancora lo attraversano è sufficiente leggere l’ultima relazione della COVIP (cfr. COVIP, Relazione per l’anno 2023, 2024), l’autorità di vigilanza sui fondi pensione, dalla quale emerge, in primis, che i “punti deboli” del sistema di previdenza complementare sono proprio quelle categorie di lavoratrici e lavoratori che necessiterebbero maggiormente di un secondo pilastro per raggiungere prestazioni pensionistiche adeguate, vista la difficoltà a raggiungere un flusso regolare nel tempo dei propri versamenti all’INPS. Parliamo, in particolare, dei lavoratori più giovani e delle donne, che sono soggetti a carriere maggiormente discontinue e che, nei fatti, mostrano tassi di iscrizione e livelli di contribuzione media alla previdenza complementare molto più bassi rispetto al totale degli iscritti ai fondi pensione.
Per colmare questi gap non sono mancate, in questi anni, le proposte di intervento dei principali esperti della materia, dalle soluzioni più hard, volte a introdurre per legge l’obbligatorietà dell’iscrizione ai fondi di previdenza complementare (scelta, questa, che necessiterebbe di una nuova riforma di sistema) a quelle più soft, che puntano a una rimodulazione degli attuali incentivi fiscali in funzione del reddito degli iscritti o del rapporto di lavoro instaurato dagli stessi oppure a un ampliamento degli spazi di intervento della previdenza complementare per coprire i buchi contributivi legati ai periodi di congedo.
Nessuna di queste istanze sembra tuttavia essere stata presa in considerazione dall’attuale maggioranza, anche se si estende lo sguardo agli emendamenti proposti all’art. 28. L’intenzione appare piuttosto quella di ripescare una vecchia soluzione, quella del c.d. silenzio-assenso, già al centro dell’intervento del D. Lgs. n. 252/2005, e ora “rivitalizzata” dall’emendamento 28.6 a firma Rizzetto. In caso di recepimento dell’emendamento, a partire dal 1° gennaio 2025, verrebbe riaperto il termine di sei mesi a disposizione dei lavoratori per decidere della destinazione del proprio Trattamento di Fine Rapporto (TFR), ossia se lasciarlo in azienda o destinarlo ad una forma di previdenza complementare. In caso di mancata espressione di volontà da parte del lavoratore entro l’arco di tempo previsto, il datore di lavoro è tenuto a trasferire il TFR maturando dei dipendenti alla forma pensionistica collettiva prevista agli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, applicati in azienda, fatto salvo il caso in cui sia intervenuto un diverso accordo aziendale che preveda la destinazione del TFR a una forma collettiva di cui all’art. 1, comma 2, lett. e), n. 2, della L. n. 243/2004 (c.d. conferimento tacito del TFR).
Il termine “riapertura” risulta quanto mai opportuno per qualificare tale facoltà, visto che la misura si rivolge a lavoratori che, ai sensi dell’art. 8, comma 7, del D. Lgs. n. 252/2005, hanno precedentemente già deciso in maniera esplicita, entro sei mesi dalla data di prima assunzione, di mantenere il proprio TFR in azienda e di non destinarlo ad alcuna forma di previdenza complementare. Lavoratori che – è bene evidenziarlo – possono già revocare in ogni momento tale scelta e destinare il proprio TFR maturando a un’altra forma di previdenza complementare (senza poter invece intervenire sulla destinazione del TFR pregresso), potendo inoltre decidere di destinare al fondo un’ulteriore parte della propria retribuzione, con l’eventuale concorso di un contributo datoriale.
Quali novità concrete potrebbe comportare, quindi, una nuova riapertura del semestre di silenzio-assenso? Con ogni probabilità, un aumento delle risorse per i fondi pensione negoziali promossi dalle parti sociali, grazie a una nuova serie di lavoratori “distratti”, che nell’arco del nuovo semestre di silenzio-assenso non abbiano trovato il tempo, le motivazioni o le informazioni adeguate per esprimere una propria posizione esplicita sulla destinazione del proprio TFR. Lavoratori che, tuttavia, difficilmente potranno raggiungere in questo modo rendimenti soddisfacenti nel lungo periodo, considerato che, secondo le regole vigenti, il TFR dell’aderente tacito viene investito in un comparto con garanzia di restituzione del capitale. Questa scelta prudenziale, come evidenziato anche dalla Presidente f.f. della COVIP Francesca Balzani nelle considerazioni a margine dell’ultima Relazione (cfr. COVIP, Relazione per l’anno 2023. Considerazioni del Presidente, 19 giugno 2024, p. 25), potrebbe penalizzare fortemente i «lavoratori silenti, specie di età più giovane» visto che «determina una perdita di opportunità in termini di redditività, ipotecando anche pesantemente il risultato a scadenza» e rischiando, paradossalmente, di portare a rendimenti minori rispetto alla rivalutazione annuale del TFR lasciato in azienda.
Occorrerà capire, nei prossimi giorni, se l’emendamento sul silenzio-assenzo sarà recepito nel testo definitivo della Legge di bilancio. Quello che è già certo, tuttavia, è che si è persa un’altra occasione per rilanciare davvero il secondo pilastro del nostro sistema previdenziale, nonostante i buoni propositi iniziali.
Michele Dalla Sega
Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Udine
ADAPT Senior Fellow