La pronuncia di illegittimità costituzionale delle sanzioni sull’orario di lavoro: i chiarimenti ministeriali

A seguito alla sentenza n. 153/2014 della Consulta, il Dicastero del lavoro interviene al fine di istruire le proprie articolazioni periferiche in merito agli effetti della pronuncia sull’ordinaria attività ispettiva e legale.
 
La Sentenza della Consulta ed il concetto di “rapporti esauriti”
 
Com’è noto, con sentenza n. 153/2014 del 21 maggio-4 giugno 2014 (vedila in Boll. ADAPT, n. 24/2014 e, per un primo commento, A.R. Caruso, P. Rausei, C. Santoro, La Consulta con sent. 153/2014 boccia le sanzioni sulle violazioni dei riposi per le sanzioni in vigore da agosto 2004 a giugno 2008, in Boll. ADAPT, n. 23/2014), la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei c. 3 e 4 dell’art. 18-bis, d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, come modificato dall’art. 1, c.1, lett. f, d.lgs. 19 luglio 2004, n. 213, in tema di sanzioni per le inosservanze alla disciplina dell’orario di lavoro.
Infatti, a giudizio della Consulta, il legislatore delegato, nel riscrivere l’apparato sanzionatorio del d.lgs. n. 66/2003 relativamente alla durata massima dell’orario di lavoro (art. 4, c. 2, 3 e 4), del riposo giornaliero e settimanale (artt. 7, c. 1, e 9, c.1) e delle ferie annuali (art. 10, c. 1), non ha osservato il criterio contenuto nella legge di delega all’art. 2, c. 1, lett. c., l. 1° marzo 2002, n. 39, richiedente, a parità di violazioni omogenee e di uguale offensività, l’identità delle sanzioni rispetto al previgente regime normativo. In ragione di ciò, le sanzioni amministrative relative al periodo intercorrente tra il 1° settembre 2004 ed il 24 giugno 2008 devono essere considerate costituzionalmente illegittime.
 
Sebbene il giudizio di costituzionalità afferisca alla legge, esso spiega effetti anche sui provvedimenti amministrativi attuativi della fonte primaria dichiarata non conforme alla Costituzione: in questo caso, la dottrina è solita parlare di inefficacia derivata dell’atto. Appare pertanto opportuno interrogarsi sulla sorte riservata ai provvedimenti amministrativi (ordinanze-ingiunzioni) che abbiano applicato le sanzioni previste da norme oggi dichiarate incostituzionali: ragioni di natura, per così dire, sostanziale renderebbero ipotizzabile la restituzione delle somme versate per sanzioni che, a seguito della pronuncia della Consulta, andavano considerate sin da principio non dovute. Tuttavia, le regole giuridiche rispondono ad esigenze diverse ed ammettono tale ipotesi solo in determinate circostanze. Infatti, gli effetti che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale hanno sulle leggi e sui provvedimenti amministrativi devono essere individuati alla luce di due disposizioni: la prima, rappresentata dall’art. 136 Cost., il quale dispone che la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere efficacia dal giorno successivo a quello di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della sentenza della Consulta; la seconda, prevista nell’art. 30, co 3, l. 11 marzo 1953, n. 87, secondo cui «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza».
 
Sarebbe tuttavia erroneo sostenere che l’illegittimità normativa abbia un effetto ex nunc, ovverosia dalla data di pubblicazione della sentenza, piuttosto che ex tunc, e quindi dalla data di emanazione del provvedimento affetto da difformità rispetto alla legge fondamentale: infatti, la l. 11 marzo 1953, n. 87, nel disciplinare il giudizio di costituzionalità, ha opportunamente chiarito che gli effetti delle pronunce della Corte Costituzionale riguardano i rapporti pendenti ed i giudizi in corso. La scelta normativa è di intuitiva evidenza, e riposa sull’esigenza di assicurare a chi ha sollevato la questione di non vedersi applicare la disposizione ritenuta incostituzionale, pena tanto l’inutilità della sua doglianza quanto del medesimo pronunciamento del Giudice delle leggi.
 
Ciononostante, la pacifica inapplicabilità di una norma giuridica dichiarata illegittima incontra il limite dei cosiddetti “rapporti esauriti”, ovverosia quei rapporti giuridici non più in essere perché definiti per effetto di prescrizione, sentenza passata in giudicato, provvedimento amministrativo non sottoposto a gravame, e così via. Sul punto, dottrina e giurisprudenza sono pienamente concordi, essendo principio del tutto pacifico quello per cui «Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudicato, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza» (Cass. civ., 28 luglio 1997, n. 7075; conformi sono Cass. civ., 16 maggio 1975, n. 1902; Cass. civ., 10 ottobre 1975, n. 3243; Cass. civ., 6 luglio 1977, n. 2984; Cass. civ., 28 maggio 1979, n. 3111; Cass. civ., 9 marzo 1982, n. 1480; Cass. civ., 26 luglio 1996, n. 6744; Cass. civ., 13 febbraio 1999, n. 1203; grassetto nostro). Ciò implica che una legge, pur se dichiarata incostituzionale, esplica i propri effetti per quei rapporti costituiti e terminati prima della relativa sentenza della Consulta, in virtù dei principi di certezza del diritto e tutela dell’affidamento di coloro che in buona fede hanno applicato la norma poi divenuta illegittima.
 
Si tratta di principi posti alla base dell’ordinamento giuridico, volti ad assicurare la certezza dei rapporti: ove fosse possibile ritenere invalida ed inefficace la norma incostituzionale anche per i rapporti definiti, magari a distanza di anni, ne emergerebbe una situazione di duratura incertezza per tutti gli atti della Pubblica Amministrazione, sempre soggetti a possibili azioni di restituzione.
Invero, solo la pendenza di un giudizio o di un procedimento amministrativo consente la disapplicazione della legge affetta da incostituzionalità, posto che in tali casi il rapporto, ancora in divenire o controverso, non ha creato alcun legittimo affidamento nelle parti in causa, dovendo quindi esser risolto alla stregua della decisione presa dalla Consulta.
 
La posizione del Ministero del lavoro
 
Tale posizione è stata peraltro accolta nella recentissima lettera circolare del Ministero del lavoro del 10 luglio 2014, prot. 37/0012552 (vedila in questo Bollettino), emanata proprio per fornire istruzioni sugli esiti della decisione della Consulta sugli atti amministrativi emanati in osservanza della normativa dichiarata incostituzionale. Infatti, precisato che il vaglio di legittimità costituzionale ha riguardato esclusivamente le violazioni commesse dal 1° settembre 2004 al 24 giugno 2008 – essendo stata la materia in seguito interamente modificata – il Ministero ha chiarito che «La perdita di efficacia della disciplina introdotta dal d.lgs. n. 213/2004 va poi ad incidere su tutte quelle situazioni giuridiche pregresse che siano ancora aperta o pendenti, mentre non investe le vicende “chiuse”, in quanto regolate da sentenze definitive (passate in giudicato), da atti amministrativi definitivi, oppure nei casi di decorrenza del termine di prescrizione o dal verificarsi di decadenze» (circ. cit., 2, grassetto ministeriale).
 
In applicazione di tale impostazione, quindi, il Ministero ha disposto che gli Uffici periferici rideterminino gli importi relativi alle violazioni in parola applicando le sanzioni previste dalla normativa precedente – e quindi l’art. 9, r.d. 15 marzo 1923, n. 692 ed art. 27, l. 22 febbraio 1934, n. 370 – sia in sede di rapporti ex art. 17, l. 24 novembre 1981, n. 689, sia nel caso di emissione dell’ordinanza-ingiunzione, sia, infine, nel relativo giudizio di opposizione, sempre che, ovviamente, i rapporti non possano essere considerati esauriti nel senso esposto, e quindi che non sia spirato il termine per l’opposizione all’ordinanza ovvero il giudizio non sia stato ancora definito da una sentenza passata in giudicato.
 
La posizione ministeriale merita di essere condivisa, costituendo una scrupolosa applicazione di consolidati orientamenti non solo dottrinali e curiali, ma anche di prassi seguita da altre Amministrazioni pubbliche, fra cui l’Agenzia delle Entrate: quest’ultima, infatti, in virtù dei principi di certezza dei rapporti giuridici e di legittimo affidamento, riconosce ai contribuenti la possibilità di chiedere la restituzione di somme versate a fronte di una norma successivamente dichiarata incostituzionale solo qualora per i medesimi sia ancora possibile parlare di “rapporti non esauriti”, nei termini già esposti (Circ. Ag. Entrate del 16 marzo 2000, n. 49/E; Circ. Ag. Entrate del 20 marzo 2001, n. 28/E).
 
Giovanna Carosielli
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@GiovCarosielli
 
Carmine Santoro
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@carminesantoro
 
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* Si segnala che le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero degli Autori e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’amministrazione di appartenenza.
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