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Bollettino ADAPT 25 ottobre 2021, n. 37
Nel commentare per Avvenire i recenti avvenimenti del porto di Trieste, un bravo giornalista come Francesco Riccardi ha sottolineato come «ad accendere queste lotte c’è quantomeno un travisamento della solidarietà, se non più semplicemente l’idea corporativa di una minoranza che intende usare il proprio piccolo potere per imporre qualcosa al governo pro tempore e alla maggioranza dei cittadini». Quando oggi si utilizza il termine “corporazione” o si identifica come “corporativo” l’intento di un soggetto istituzionale – ad esempio, un sindacato o un partito politico – il riferimento è ad un atteggiamento di tutela esclusiva degli interessi di un gruppo ristretto, spesso a danno della collettività o comunque senza un rimando a quest’ultima. Questo è quanto pensa oggi la gran parte della opinione pubblica pensando a una parola di cui non si conoscono però storia e origini.
Ma di cosa si parla, precisamente, quando si parla di “corporazione”? La storia di queste istituzioni è vecchia di secoli, e sono numerose le trasformazioni che hanno vissuto nell’arco della storia. Basti pensare alla differenza tra le corporazioni di arti e mestieri medievali e le corporazioni create dal regime fascista.
Porsi, oggi, questa domanda può sembrare un esercizio teorico, di interesse solo per gli addetti ai lavori e non adatto alla riflessione pubblica. Eppure, comprendere il senso e la storia di questo termine può gettar luce non solo sulle ambiguità terminologiche che ancora oggi lo accompagnano, ma anche offrire spunti di riflessione alla stessa rappresentanza e al mondo sindacale. E questo perché parlare di corporazione vuol dire tornare alle radici dell’idea stessa di interesse collettivo, di rappresentanza, di politica, di Stato (e dei suoi confini), di sussidiarietà. Vale quindi la pena tentare di rimettere a fuoco origine e senso di questo termine, di certo non per riabilitarne l’utilizzo nel lessico contemporaneo, ma per dare profondità storica a questi concetti e (auspicabilmente), meglio orientarci nell’interpretazione della società contemporanea e delle sue sfide al mondo del lavoro.
Un prezioso aiuto ci è offerta dalla voce “Corporazione” dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani, redatta nel 1992 da Lorenzo Ornaghi. Nel medioevo, la corporazione è la “universitas personarum”, e cioè: «Una gilda, il capitolo di una cattedrale, una città imperiale, una università, sono infatti una universitas; così come universitates verranno considerati, più tardi, il Parlement di Parigi o quello di Tolosa, lo ‘Scacchiere’ di Normandia e le Cortes provinciali spagnole». Cosa tiene assieme istituzioni così diverse? Alla base di queste istituzioni c’è soprattutto il desiderio di “corporarsi”, di farsi corpo, di unirsi di un gruppo più o meno vasto di persone al fine di perseguire un fine (percepito o considerato) comune. Andando ancor più alla radice, l’origine del termine è infatti da ritrovare nel termine “corpo”. Nel complesso mosaico della polisemia dell’espressione “corporazione”, restando sul quale vi è il rischio concreto di ricondurre ad un’immagine unitaria i tanti, distinti, significati e declinazioni del termine, “corpo” ci dice, prima di tutto, di un’organicità, di un sistema che collabora, di un insieme che (aristotelicamente) è maggiore della somma delle parti che lo compongono, dove personale e collettivo si mischiano e si intrecciano. Ornaghi afferma infatti che «ogni corporazione è sì protesa al perseguimento dei propri interessi (sempre privati e particolari), ma è simultaneamente anche proiettata verso la ‘globalizzazione’ – e quindi l’effettiva ‘politicizzazione’ – di questi interessi frazionali».
Qui si apre un’altra questione decisiva, recentemente rilanciata da un articolo di Antonio Polito sul Corriere della Sera, e che apre una domanda che potremmo così sintetizzare: la rappresentanza è un fenomeno esclusivamente sociale ed economico, oppure possiede anche una valenza politica? Nel periodo preindustriale, una domanda così posta non avrebbe avuto alcun senso. Non vi era, infatti, una netta separazione tra queste dimensioni: noi corriamo il rischio di interpretare il fenomeno della rappresentanza ponendolo in rapporto dialettico con il potere (e il ruolo) dello Stato, il quale però ha un’origine successiva le corporazioni su cui ora stiamo concentrando la nostra attenzione. Il corpo a cui si fa qui riferimento non è quindi il corpo politico del Leviatano di hobbesiana memoria, ma un corpo plurale, un moltiplicarsi di corpi nati dal desiderio (dal basso) di associarsi a difesa e tutela dei propri interessi e, in particolare, di interessi professionali e legati al mondo del lavoro. Anche su questo fronte la ricostruzione storica può aiutarci a capire meglio questa differenza e comprendere meglio il valore “politico” delle corporazioni.
Prima di tutto vale la pena distinguere tra gilde e corporazioni. Spesso utilizzato come sinonimo di corporazione, sotto il nome di gilda si è soliti raggruppare quelle associazioni commerciali che si sviluppano, tra i secoli VI-VII e XIV, per sfruttare le risorse dei traffici marittimi lungo le coste del Mare del Nord, nella Frisia, nel sud dell’Inghilterra, nei Paesi Scandinavi. È un termine quindi con un’origine nordica, la cui etimologia rimanda ad un banchetto sacro. È questo un altro elemento interessante: ciò che caratterizza, in prima battuta, la gilda è l’idea di condivisione e di partecipazione che lega i suoi appartenenti, prima ancora che una definita conformazione giuridica o una precisa finalità economica. Le funzioni storiche assegnate alle gilde sono numerose. Si va dal controllo della qualità dei prodotti, al riconoscimento della cittadinanza per coloro che avevano svolto l’apprendistato, alla regolazione di quest’ultimo, alla fissazione di standard produttivi riguardanti le materie e gli strumenti da utilizzare. Per gli appartenenti alla gilda, che si configura poi come una struttura con un consiglio eletto il quale nomina a sua volta un rappresentante, sono offerti servizi che oggi definiremmo quasi mutualistici – elemento che caratterizza anche il primo sindacato, pur in forme diverse: il supporto in caso di infortuni e malattie, e più in generale nei momenti di difficoltà. Ha poi anche funzioni religiose e sociali, tanto da avere (lo vediamo ancora oggi in molte città italiane) una chiesa di riferimento e un ruolo di prim’ordine anche durante le processioni cittadine.
Per quanto invece riguarda le corporazioni di arti e mestieri, la cui definitiva affermazione è collocata nel XIII e XIV secolo europeo, esse hanno un ruolo centrale nella società preindustriale: «Durante questi secoli, oltre a costituire il fulcro di un sistema economico in cui il consumo sembra orientare e regolare pressoché per intero l’attività di produzione, le corporazioni d’arti e mestieri assurgono a struttura determinante dell’ordine sociale e politico-costituzionale». Come nel caso delle gilde, anche le corporazioni hanno alla base un patto, un giuramento tra i consociati, che si operano per raggiungere finalità comuni. Più che nel caso delle gilde, secondo Ornaghi, oltre al ruolo sociale acquisisce grande importanza il ruolo economico e politico. È infatti decisiva la considerazione finale che dedica alle corporazioni: «le corporazioni d’arti e mestieri vengono a estendere la loro azione dal terreno della tutela dei propri interessi frazionali a quello del perseguimento di interessi generali. E in tal modo, ‘globalizzando’ i loro fini economico-professionali, assumono un ruolo sempre più marcatamente ‘politico’ – esemplare è il caso delle arti maggiori e minori a Firenze – all’interno dell’organizzazione del pubblico potere».
È ora possibile misurare tutta la distanza che intercorre tra queste corporazioni e le loro finalità e l’utilizzo attuale del termine, mutuato da periodi successivi. Ad esempio, nell’articolo di Corrado Ocone sul blog di Nicola Porro, dove si legge che «oggi che il lavoro si è frantumato in mille rivoli di lavori precari e malpagati, che la società si è sempre più atomizzata e individualizzata, il sindacato stesso si è trasformato in una lobby a difesa corporativa di pensionati e ceti garantiti, cioè non dei nuovi deboli, che pure ci sono e sono tanti, ma dei nuovi forti». Ovviamente non si vuole qui entrare nel merito di queste affermazioni, ma identificare il senso con cui vengono utilizzate le espressioni legate al mondo corporativo.
Le corporazioni non sono quindi equiparabili – tout court – a lobby di interessi privati, ma sono invece forme di aggregazione – corpi sociali – che fanno sintesi degli interessi degli associati rappresentandoli sul piano pubblico, e in questa operazione la dimensione economica o professionale dell’interesse acquisisce tinte necessariamente “sociali” o, come evidenzia Ornaghi, “politiche”. L’interesse economico privato diventa interesse collettivo e dotato di una rilevanza pubblica e politica nel momento in cui è rappresentato, grazie all’operazione delle corporazioni, le quali non sono quindi comprensibili come istituzioni puramente economiche, o solamente sociali, ma come realtà – ancora una volta, corpi – che “tengono assieme” dimensione economica e dimensione sociale.
Ci separano dall’esperienza corporativa medievale secoli di storia, nei quali la rappresentanza degli interessi collettivi si è trasformata ed ha acquisito forme nuove, reagendo alle trasformazioni economiche e sociali. La rappresentanza corporativa premoderna non è infatti sovrapponibile all’esperienza sindacale, ma nemmeno a quella – che pure ad essa si richiamava – delle corporazioni fasciste. Eppure, proprio in momenti di crisi e travaglio – come quello che stiamo attraversando – acquisisce nuova forza la riflessione sulla rappresentanza, sul suo senso e sulla sua necessità di adattarsi alle sfide sociali ed economiche all’orizzonte. A partire dalla modernità, si ripresenta ciclicamente l’alternanza tra due visioni contrapposte, sconosciute in epoca medievale: la tensione cioè tra un’idea di rappresentanza corporativa quale attestazione di una dimensione politica che inevitabilmente sfugge al potere statale, e un’idea orientata invece a riaffermare la politicità e unità dello Stato. Possiamo osservare questa dinamica anche oggi, nell’ambito del dibattito a proposito di una possibile legge dedicata alla rappresentanza e alla misurazione della rappresentatività sindacale.
I già lunghi anni di vita repubblicana sono stati caratterizzati da una larga volontà di non dare attuazione agli articoli 39 e 40 della nostra Carta Costituzionale nel timore di imbrigliare le libere dinamiche sociali e il progresso che queste avrebbero potuto generare. La memoria ancora recente della disciplina pubblicistica dei corpi intermedi voluta dal fascismo ha indotto a preferire una società aperta. Sarebbe quindi antistorica l’ipotesi di provvedere ora ad una regolazione della loro rappresentatività che porterebbe inesorabilmente con sé l’ingerenza pubblica nelle attività interne di reclutamento e di selezione dei gruppi dirigenti. La ragione sembra consistere nella volontà di consolidare il loro ruolo quali attori degli accordi tripartiti a sostegno delle politiche pubbliche e dei contratti collettivi nazionali a regolazione delle relazioni tra imprese e lavoratori di settori individuati dalla legge. Ma proprio la definizione dei perimetri contrattuali appare essere il contenuto primario di quella libertà di associazione che costituisce il principio fondamentale dell’art. 39 della Costituzione.
D’altronde, è nel tempo recente che la Carta Costituzionale è stata corretta riformando l’art. 118 che al comma 4 dispone il principio di sussidiarietà orizzontale. Ne discende un rafforzamento dell’art. 2 della stessa Carta ove assumono rilevanza le formazioni sociali ancorché tenute a inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale. Come potremmo quindi irrigidire le capacità delle associazioni di tutela e rappresentanza nel momento in cui le pubbliche amministrazioni potrebbero delegare ad esse anche funzioni di interesse generale perché meglio assolte secondo criteri di libertà e di responsabilità? O come potremmo confonderle con le società profittevoli di lobbying, queste sì meritevoli di leggi di regolazione perché orientate alla esclusiva affermazione dell’incarico ricevuto?
Solo dal basso possono sprigionarsi nuovi corpi intermedi corrispondenti alle moderne articolazioni degli interessi nel contesto delle intense trasformazioni in corso e di quelle imprevedibili che verranno. Lo stesso carattere confederale di alcune associazioni, secondo le delimitazioni oggi conosciute, potrebbe mutare per libera scelta delle persone fisiche e giuridiche. Basti pensare alla novità intervenuta in alcune confederazioni dei sindacati dei lavoratori dipendenti che sono arrivate a comprendere associazioni di prestatori autonomi. O alla decisione mutevoli di singoli sindacati che talora hanno preferito dissociarsi dalle confederazioni di appartenenza o viceversa aderire ad aggregazioni più ampie con varie regole di conservazione di uno stato autonomo. Né vale la preoccupazione che tutto questo ingeneri confusione perché a nessuno, e tanto meno allo Stato, deve essere consegnato il potere di decidere ove deve interrompersi la spirale della autonomia delle formazioni sociali. La storia indica, piuttosto, un’altra via: non quella di un astratto ritorno alla logica corporativa premoderna, ma di una valorizzazione di corpi plurali, prossimi, costituiti da associazioni libere e democratiche, come erano le corporazioni nel periodo preindustriale.
È facile capire come, allora, l’utilizzo attuale del termine o si riferisce ad un’altra accezione (di certo non a quella preindustriale) o è semplicemente scorretto. È piuttosto in questa sintesi che va quindi compreso l’operato delle corporazioni nel contesto preindustriale, quando non era ancora sorto il mercato del tempo di lavoro e l’organizzazione moderna del lavoro, e dove lo Stato (come termine-concetto presente nel nostro glossario) non esisteva. Ed è proprio invece con la modernità che lo Stato arriva ad essere sinonimo di “politico”.
Si tratta quindi di superare le semplici polarizzazioni che ancora oggi orientano il dibattito pubblico. “Corporativo” non si oppone a “collettivo”, come se fosse la strenua difesa di una posizione di privilegio. “Socioeconomico” non si oppone a “politico”, quasi che la rappresentanza organizzata degli interessi che abitano il mondo del lavoro non avesse un valore (prima ancora che una rilevanza) politico in senso pieno, come cioè contributo attivo alla costruzione di un preciso ordine sociale ed economico. È invece nel (naturale) desiderio di associarsi, di “farsi corpo”, di unirsi per collaborare all’edificazione di quest’ordine che nascono le corporazioni nella storia dell’Occidente. L’età moderna e il fascismo hanno trasformato queste istituzioni, lasciandoci in eredità altre esperienze e altri significati che ancora echeggiano nel nostro utilizzo del termine corporazione. Ma la sua origine, come abbiamo visto, è ben più antica.
E forse è a questa origine libera, plurale, prossima, capace di farsi portatrice di istanze economiche, sociali e quindi politiche, che la stessa rappresentanza dovrebbe guardare per ripensare il suo ruolo nella nostra società di fronte alle proprie degenerazioni burocratiche ed autoreferenziali, alla caduta di competenze nella politica, alle sfide poste dalle trasformazioni. Un ritorno al passato che non è quindi una sua banale riproposizione, ma una riscoperta dell’originario senso e scopo dell’essere della rappresentanza. È la realtà stessa che chiede questo sforzo collettivo di riflessione e ripensamento, evitando le semplici scappatoie di un’identificazione lasca tra “politico” e “statale”, e di un riassorbimento dell’esperienza sindacale nel perimetro d’azione dell’attore pubblico – tentazione sempre presente – come nel periodo fascista. È la realtà che ci riconsegna una crescente domanda di prossimità, o di “catena corta”, della rappresentanza. Secondo molti i territori e le singole imprese risultano l’ambito più idoneo per regolare le dinamiche retributive indotte dal costo della vita, dalla efficienza del contesto istituzionale e infrastrutturale in cui operano le imprese, da parametri di produttività o di vario risultato, da incrementi di professionalità. Solo in prossimità sembra inoltre possibile definire forme di collaborazione tra istituzioni educative e imprese o loro associazioni e progettare ancor più complessi ecosistemi formativi. Così come le imprese e i territori possono generare forme di welfare ulteriormente complementare rispetto ai grandi fondi collettivi contrattuali nazionali. Questa infinita vitalità dovrebbe soggiacere a una sorta di pareri di conformità o peggio all’impulso esclusivo delle organizzazioni centrali?
ADAPT Senior Research Fellow
Maurizio Sacconi
Chairman ADAPT Steering Committee
@MaurizioSacconi