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Bollettino ADAPT 8 novembre 2021, n. 39
Non è certo una novità degli ultimi anni la costante dialettica tra la rappresentanza di imprese e lavoro e la politica, la cui intensità aumenta in fasi come quella che stiamo attraverso in questi giorni di predisposizione della prossima legge di bilancio. Nell’incessante alternarsi di fasi fortemente “rivendicative” e fasi più “concertative”, è forse utile lo sforzo di riscoprire le ragioni più profonde e, dunque, l’origine stessa di questa dialettica. Una dialettica che, ancora oggi, fa sì che le logiche proprie di questo dialogo si orientino più verso l’individuazione di politiche sociali distributive, piuttosto che al – ben più faticoso – compito di individuazione e di regolazione (dal basso) della vita economica e sociale.
Il rapporto tra la rappresentanza e l’autorità costituita precede la nascita dello stesso sindacato moderno. Quando a seguito della Rivoluzione francese con la legge “Le Chapelier” (1791) vennero abolite le antiche corporazioni di arti e mestieri, l’obiettivo perseguito non era semplicemente di matrice economica – combattere la formazione di monopoli e favorire la costruzione di mercati liberi dall’influenza di gruppi di potere e locali – ma politica e sociale. Alexis De Tocqueville, commentando questa legge, notò che quest’ultima «non ha solamente lo scopo di mutare un “antico governo”, ma anche quello di abolire “l’antica forma della società». Intervenendo sul ruolo dei corpi intermedi non si va ad intaccare semplicemente un’idea di governo della cosa pubblica o della vita economica, ma si plasma una diversa idea di società. E infatti con la Rivoluzione francese nasce un nuovo tipo di “corpo politico”, costruito come somma di individui ad esso sottoposti, secondo le parole di Ornaghi: «un potere centrale immenso, che ha attratto e inghiottito nella sua unità tutte le parcelle d’autorità e di prestigio prima diffuse in una moltitudine di poteri secondari, d’ordini, di classi, di professioni, di famiglie, di individui, e come sparpagliate in tutto il corpo sociale».
L’ordine politico, con la modernità e specificatamente a seguito della Rivoluzione francese, diventa l’ordine dello Stato. In precedenza, le corporazioni di arti e mestieri avevano un ruolo “politico”, nel senso però che possiamo riconoscere a questo termine in un contesto storico nel quale le categorie con le quali noi oggi guardiamo a questi fenomeni erano assenti – tra tutte, quella dello Stato. L’ordine politico era invece quello dei corpi sociali, come le corporazioni, della loro opera di rappresentanza e governo della dimensione economica e sociale – assieme. Dal sistema si passa quindi, dopo la Rivoluzione, alla struttura: si passa cioè da forme di potere locali, concentrate grazie al ruolo di questi “corpi” sociali in agglomerati di rappresentanza, a un’organizzazione verticistica che pone l’individuo in diretto contatto con l’ordine pubblico.
Ma la dialettica tra rappresentanza e potere statale non si esaurisce con il sorgere dello Stato moderno. Ad una forza centripeta che cerca di ricondurre a sé ogni forma di rappresentanza, al fine di renderla una propria articolazione evitando così il propagarsi e il diffondersi di centri di potere a sé non riconducibili, si contrappone la spinta centrifuga delle associazioni di rappresentanza verso l’”autarchia” – una tendenza e una dinamica che sembrano riproporsi ancora oggi. Questa oscillazione non ha, comunque, un ritmo causale: secondo Joseph von Görres (che scriveva nel 1818) «ogni qualvolta nella società borghese la costituzione (Verfassung) s’inceppa, gli interessi organizzati diventano in tal modo l’ostacolo più difficile sulla via di quell”assolutizzazione’ della sintesi statale». La rappresentanza sarebbe quindi posta in diretta contrapposizione all’assolutismo centralista e statale, proponendo in alternativa un modello decentrato e plurale di gestione del potere.
Se la via dell’autarchia è costellata di fallimenti e difficoltà, anche il progetto di un incorporamento della rappresentanza all’interno dello Stato seguendo l’ideale di una società di individui posti a diretto contatto con il potere centrale auspicata dalla Rivoluzione francese è risultata impraticabile. L’ordine politico e sociale non trova (né ha trovato in passato) nello Stato la propria, esclusiva, ragion d’essere, né la propria stabilità. La dimensione politica non coincide con la dimensione statale proprio perché il potere ha una natura relazionale che sfugge alla sola, rigida, struttura verticistica. È in questa tensione che nasce anche la “corporazione” più famosa dell’epoca moderna: il sindacato.
Momento di svolta decisiva per la struttura stessa di questa dialettica è la Rivoluzione industriale. Con essa, com’è noto, sorgono i primi sindacati modernamente intesi – come le trade unions inglesi studiate tra i primi dai coniugi Webb (per un approfondimento si veda Apprendistato e rappresentanza nella “Storia delle unioni operaie” dei coniugi Webb). È proprio sotto alla spinta delle trasformazioni economiche e sociali che risulta evidente la lentezza politica-istituzionale dello Stato centrale. La rappresentanza torna ad affermarsi non solo come attore politico, capace di dare voce – e potere – a gruppi organizzati sorti dal basso, ma anche come un’istituzione fondamentale per la regolazione della vita economica e sociale. Sembra così emergere, con il primo sindacato, l’impossibilità di una sintesi assoluta, di una totalità non costituita da istituzioni collettive chiamate ad un ruolo di prossimità rispetto alla società moderna. I lavoratori delle prime grandi industrie non trovano, infatti, risposta alle loro esigenze appellandosi alla dimensione statale.
È quindi la dimensione economica che dimostra l’illusione di uno Stato centrale capace di fare sintesi di tutti gli interessi in gioco. E così nasce, insieme al sindacato, una nuova separazione: l’economico sarà l’elemento più refrattario alla politica statale, cioè sociale, arrivando a creare una crepa tra queste due dimensioni. E proprio la politica sociale – e quindi statale – passa ad essere non più produzione ma spartizione e distribuzione di risorse economiche e sociali.
Se pure è già stato ricordato come “il politico” sembri quindi non coincidere con lo Stato e i suoi confini, come acquisisce questo valore (anche) la rappresentanza sindacale moderna, tanto da essere riconosciuta da studiosi come Toniolo quale un elemento imprescindibile di ogni democrazia politica? Se la politicità delle corporazioni medievali si strutturava in dialogo con la società e l’economia, nel caso del sindacato è proprio nei confronti del potere statale che si attuano le rivendicazioni legate al proprio ruolo. È nella modernità che nasce quella dialettica tra rappresentanza e Stato che genera due polarizzazioni, assenti nel periodo preindustriale: quella tra dimensione economica e sociale, e quella tra rappresentanza e politica. Quest’ultima si afferma quando, tramontata l’illusione illuminista, si assiste nell’Ottocento alla crisi dello Stato, dove si osserva la crescente separazione tra politico e statale, tra la capacità di rappresentare e la capacità di governare.
È una scelta della rappresentanza quella di riguadagnare valore politico a partire dall’interlocuzione e dalla dialettica con lo Stato. Così come è una scelta quella di chiedere ad esso prima di tutto politiche distributive piuttosto che intervenire nella regolazione della vita economica e sociale. È nelle geometrie dei rapporti tra rappresentanza e Stato che si disegnano i contorni, e si stabiliscono gli equilibri, del reciproco ruolo socioeconomico e politico. Lo si vede bene dalla storia della stessa rappresentanza. Le corporazioni di arti e mestieri nascono come soggetto politico, e non solo economico e sociale. È nell’ambito della composizione degli interessi e della loro rappresentanza che operano, nel contesto preindustriale, mentre successivamente instaurano (con il sindacato) una dialettica con il potere pubblico che ne evidenzia l’ormai conclamata impossibilità di far coincidere potere politico con potere statale, a dimostrazione di un continuo ri-sorgere di forme di aggregazione, rappresentanza e potere nate dal basso e miranti alla tutela e alla promozione dei diversi interessi che, inevitabilmente, contraddistinguono una società plurale e in continua trasformazione.
È tutta “moderna” l’illusione di una rappresentanza semplice e non mediata degli interessi dei cittadini in quanto tali, e dove la complessità è ricomposta e sistematizzata dall’unico, loro, interlocutore: lo Stato. Un’illusione che, prima di essere superata dalla riflessione teorica, lo è dall’esperienza traumatica delle trasformazioni industriali, che riaffermano il ruolo delle “corporazioni” e più in generale di una rappresentanza politica, cioè dotata di un potere che non è semplicemente conferito dall’alto ma che collabora attivamente alla costruzione di un preciso ordine economico e sociale.
Pensare la rappresentanza nel suo valore economico senza tenere a mente il suo ruolo sociale vuol dire “ridurla” a lobby. Intestarsi battaglie sul piano sociale, rinunciando all’attiva costruzione e regolazione dei mercati del lavoro vuol dire al contrario rinunciare al proprio ruolo in tali contesti, cedendolo allo Stato e al potere centrale. Lasciando però così “liberi” in entrambi i casi spazi di prossimità, interessi e specificità locali, caratteristiche territoriali che richiedono – oggi più che mai – una rappresentanza adeguata e capace di dare voce e volta alla pluralità e quindi rendere possibile un dialogo. Come infatti ricorda Hanna Arendt in Vita Activa, l’esperienza umana è intrinsecamente relazionale, e di rimando è in una società di persone – e non di individui, come auspicava la Rivoluzione francese – in dialogo che è possibile riscoprire l’elemento necessario ogni moderna esperienza democratica: la libertà. Che, come sottolineava un autorevole giuslavorista come Mario Grandi, è poi alla base di ogni genuina esperienza di rappresentanza sindacale: «il problema critico della rappresentanza torna ad essere un problema fondamentale di libertà: libertà delle persone, che si associano nei sindacati, libertà dei sindacati, non considerabili «altro» dall’insieme dei lavoratori organizzati, di organizzare al proprio interno la vita associativa e di agire, secondo le regole dell’autonomia privata, per la tutela di interessi collettivi come individuati dall’organizzazione di gruppo» (così in M. Grandi, In difesa della rappresentanza sindacale, in Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 2004 p. 631).
La breve ricostruzione storica svolta, incentrata su due periodi decisivi per l’evoluzione della rappresentanza – la Rivoluzione francese e la Rivoluzione industriale – suggerisce quindi di riscoprire la natura prima di tutto associativa, plurale, democratica, scaturente da una dinamica sussidiaria e locale che fa della rappresentanza un’istituzione decisiva per la regolazione della vita economica e la costruzione di un preciso ordine sociale. Questo non porta, ovviamente, a suggerire l’abbandono della dialettica con lo Stato, ma piuttosto di ricomprenderla all’interno di un orizzonte più ampio, superando le categorie e le polarizzazioni (tra economico e sociale, tra politico e statale) ereditate dalla società industriale e ancora oggi pienamente operative, e tornare ad abitare gli spazi di prossimità e di relazione che, come in passato, sono all’origine del ruolo sociale ed economico della stessa rappresentanza.
Matteo Colombo
ADAPT Senior Research Fellow
@colombo_mat