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Bollettino ADAPT 7 ottobre 2019, n. 35
Sono molte le opinioni espresse in questi giorni a proposito della convenzione del 19 settembre 2019, atto che segna la volontà delle maggiori confederazioni sindacali di avviare un processo convenzionale di certificazione della rappresentatività, anche delle altre organizzazioni sindacali aderenti al Testo Unico del 10 gennaio 2014 e attive nei settori produttivi individuati dai contratti collettivi sottoscritti. Tra le opinioni più autorevoli, non è passata inosservata quella di P. Ichino, Rappresentanza sindacale: il nodo difficile da sciogliere, in lavoce.info del 24 settembre 2019, che con la consueta chiarezza, ha messo in luce oltreché gli aspetti positivi di questo passo importante, anche le possibili conseguenze – sul piano logico-giuridico – che ne potrebbero derivare se una legge sindacale intervenisse con l’intento di “codificare” una determinata realtà che ad oggi è gestita autonomamente dall’ordinamento intersindacale.
Nessuno, infatti, può mettere in dubbio che attraverso l’accertamento del dato associativo e del dato elettorale ai fini dell’individuazione del grado di rappresentatività dei sindacati, si sia fatto un passo in avanti, soprattutto per dare più certezza all’operato degli organi ispettivi nell’applicare il criterio della maggiore rappresentatività comparata, che ha visto per oltre un ventennio giurisprudenza e dottrina impegnati in un fruttuoso dibattito. Tuttavia, come osserva P. Ichino, il meccanismo predisposto dalla convenzione interesserà solo le aziende che aderiscono ai sistemi di rappresentanza facenti parte del o aderenti al Testo Unico del 2014; non a chi, invece, non vi ha prestato adesione.
Quindi, “soltanto 22.400 imprese, per un totale di 2,4 milioni di lavoratori da esse dipendenti” potranno beneficiare di questa indagine in materia di rappresentatività. Peraltro, i contratti collettivi il cui campo di applicazione fungerà da perimetro categoriale ai fini della valutazione della rappresentatività settoriale, ne sono solo 68 (quelli appartenenti al sistema confindustriale) sugli oltre 800 censiti dal Cnel. Quindi, preliminarmente ciò che lamenterebbe P. Ichino riguarderebbe la mancata copertura del meccanismo di rilevazione su tutto il tessuto produttivo. Inoltre, l’insegna giuslavorista ritiene che “comunque la copertura non potrà mai essere totale”. E ciò perché, nell’idea di P. Ichino, non è possibile precostituire delle categorie che racchiudano l’universo della produzione nel cui ambito poter misurare la rappresentatività dei sindacati, per un motivo molto semplice: “la categoria non preesiste al contratto collettivo, ma al contrario è il contratto stesso a definire la categoria”. Conseguentemente, una volta stabilito in astratto che le categorie, entro le quali misurare la rappresentatività, siano quelle del sistema di relazioni industriali governato da Confindustria e dalle confederazioni sindacali storiche Cgil, Cisl e Uil, si finirebbe per escludere dalla misurazione tutte le categorie non rientranti in questi contratti e magari disciplinate appositamente da altri accordi collettivi, stipulati da sindacati diversi.
Secondo P. Ichino, quindi, pensare di attuare l’art. 39 che mira a garantire l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi maggiormente rappresentativi, significherebbe attuare un disegno normativo che ha una “crepa interna” in quanto da un lato sancisce “il principio di libertà sindacale [art. 39, comma 1 Cost.], che esclude la possibilità di predeterminare le “categorie” entro le quali i sindacati possano contrattare ed essere misurati, ma nel quarto comma prevede un meccanismo di estensione erga omnes degli effetti dei contratti collettivi che presuppone la predeterminazione di quelle “categorie”. Se dunque sindacati diversi possono stipulare contratti collettivi che disegnano categorie con perimetri diversi rispetto ai sindacati confederali – in virtù dell’art. 39, comma 1 Cost. – come si individua la categoria a cui si deve fare riferimento per misurare la maggiore rappresentatività delle associazioni stipulanti?”.
Questa insanabile contraddizione alla quale fa riferimento P. Ichino fu messa in luce da F. Mancini nel noto studio Libertà sindacale e contratto collettivo erga omnes, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1963, p. 570 e ss., evidenziando efficacemente il possibile contrasto tra il primo comma dell’art. 39 Cost. e la sua restante parte. Infatti, l’illustre giurista bolognese osservava che, a differenza di quanto avveniva nell’ordinamento corporativo, nell’impianto dell’ordinamento giuridico costituzionale la categoria merceologica non è precostituita, non precede il sindacato e l’attività contrattuale fungendone da presupposto “ma, tutto all’opposto, [è] il sindacato che precede e forgia la categoria, o meglio, delimita sostanzialmente a suo arbitrio, il ramo dell’economia in cui organizzarsi e negoziare”. In questa attività si sostanzia la libertà di cui al primo comma dell’art. 39 Cost. Una libertà assoluta, che finirebbe per essere invece condizionata dall’attuazione del complesso meccanismo previsto dalla seconda parte dell’art. 39 Cost.
Il peculiare caso del settore assicurativo
Per rendere in concreto l’idea di quanto sia problematico questo aspetto, P. Ichino richiama una casistica attuale che, alla luce di quanto sopra detto, rischierebbe di mettere in crisi il meccanismo che si intenderebbe attuare per via legislativa. “Recentemente – spiega P. Ichino – una associazione che rappresenta la maggioranza assoluta degli agenti del settore delle assicurazioni ha stipulato con un sindacato autonomo un contratto collettivo nazionale per i dipendenti degli agenti stessi, che fino a quel momento erano stati assoggettati al contratto collettivo stipulato da Ania, l’associazione delle compagnie assicuratrici, con i sindacati del settore affiliati a Cgil Cisl e Uil; qui, evidentemente, la verifica della “maggiore rappresentatività” dei soggetti stipulanti non può che dare risultati diversi a seconda che si faccia riferimento al perimetro più ampio, oppure a quello più ristretto definito dal nuovo contratto” ([1]).
La vicenda contrattuale alla quale probabilmente fa riferimento P. Ichino è stata ed è al centro di un complesso dibattito giurisprudenziale. Il contratto collettivo applicato dalle imprese operanti nella categoria è stato per lungo tempo il Ccnl sottoscritto dalle associazioni datoriali Sna e Unapass (oggi Anapa) e dalle organizzazioni sindacali Fiba-Cisl, Fisac-Cgil e Uilca-Uil. Tra il 2001 e il 2011, si sono succeduti una serie di rinnovi contrattuali, nell’ambito dei quali sono stati contrattati il trattamento economico-normativo e l’istituzione di un ente bilaterale: l’Enbass. Tuttavia, il 14 aprile 2011, il comitato centrale dell’associazione datoriale Sna non ha approvato l’accordo di rinnovo del Ccnl del 4 febbraio 2011 e, di conseguenza, non ha ratificato la sottoscrizione del contratto collettivo. Sennonché, il 10 novembre 2014, l’associazione Sna, a seguito di un negoziato aperto con le organizzazioni sindacali Fesica-Confsal e Confsal-Fisals, ha sottoscritto un nuovo Ccnl relativo al settore del credito e assicurativo. A tale contratto aderiva anche Cpmi Italia. Il nuovo contratto collettivo costituiva anche un nuovo ente bilaterale, denominato Ebisep. Da questa scissione di sistema, ne è derivata la vigenza di due contratti collettivi insistenti sul medesimo campo di applicazione. Il che non dovrebbe rappresentare un problema in virtù del rispetto del principio del pluralismo sindacale, se non fosse che tanto la normativa in materia previdenziale (cfr. art. 1, comma 1, D.L. n. 338/1989) che quella in materia contrattuale (cfr. ex multis D.Lgs. n. 276/2003; D.Lgs. n. 81/2015) impongono la scelta di un solo contratto collettivo, quello sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria, a seconda della funzione che la legge delega alla contrattazione. In questo disordine, la giurisprudenza ha cercato di fornire alcuni criteri per potersi orientare nell’individuazione della fonte extra ordinem legittimata ad integrare o a svolgere la funzione parametro rispetto al precetto legale. Nella sentenza n. 14177 del 10 luglio 2018, il Tribunale di Roma ha anzitutto stabilito che come “nuovo contratto” può essere considerato solo quello sottoscritto dall’associazione Sna e dalle organizzazioni sindacali Fesica-Confsal e Confsal-Fisals, mentre tutti gli accordi siglati dalle organizzazioni sindacali Fiba-Cisl, Fisac- Cgil e Uilca-Uil con l’associazione Unapass (ora Anapa) sono da considerarsi dei “rinnovi contrattuali”. Inoltre, precisano i giudici capitolini che la fuoriuscita dal sistema contrattuale dell’associazione Sna non influisce sulla loro validità.
Ulteriore contributo utile a comprendere la vicenda, giunge dal Tribunale di Genova. In questo giudizio, il giudice decide di interrogare gli ispettori che hanno proceduto a contestare l’applicazione del contratto collettivo ai fini dell’individuazione della retribuzione imponibile ed anche le organizzazioni sindacali coinvolte nella sottoscrizione dei due Ccnl. Secondo le dichiarazioni fornite in giudizio dall’ispettore dell’Istituto previdenziale, durante l’attività di ricerca degli elementi per riscontrare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali sottoscriventi il Ccnl Sna-Confsal, non è stata trovata “traccia dei due sindacati Fesica-Confsal e Confsal-Fisals”; è stato “reperito un indirizzo dove ci sarebbe dovuto essere un rappresentante” e invece è stato trovato “un Club del Genova” che, a detta di alcuni testimoni, pare sia stato sempre in quel luogo. Prosegue l’ispettore affermando che “online erano reperibili gli statuti di questi due sindacati: uno limitava l’iscrivibilità ai soli extracomunitari […] e l’altro si limitava a indicare le fattispecie di cui si occupava tra le quali non erano previsti il settore del credito e quello assicurativo”.
È stata ascoltata poi una rappresentante territoriale dell’organizzazione sindacale First-Cisl, che ha preliminarmente precisato che le organizzazioni sindacali aderenti alla Confsal e sottoscriventi il Ccnl siglato anche dall’associazione Sna si occupano di rappresentare, come da statuto, “colf, badanti e lavoratori stranieri”, per rimarcare quindi che queste “non avessero iscritti appartenenti al settore assicurativo”. La sindacalista, inoltre, fornisce anche alcuni dati statistici relativi lavoratori impiegati nel settore e alla consistenza organizzativa dei sindacati coinvolti. Ha dichiarato, infatti, che “gli addetti di agenzia assicurativa in Italia superano i trentamila” e che la First-Cisl ne rappresenta 2.960; questa inoltre “ha una sede nazionale a Roma, 16 sedi regionali e 67 sedi territoriali”. La sindacalista, infine, ha aggiunto che “sul territorio nazionale le agenzie aderenti a Sna sono di più rispetto a quelle aderenti a Anapa/Unapass ma hanno un numero inferiore di dipendenti perché si tratta di agenzie piccole: la media dei dipendenti delle agenzie Sna è 1,5 mentre la media dei dipendenti delle agenzie Anapa è 3,5”. Un dato rilevante e forse anche decisivo per le sorti del giudizio, all’esito del quale la società ricorrente ne è uscita soccombente riconoscendo il giudice comparativamente più rappresentativi i sindacati sottoscriventi il Ccnl sottoscritto dall’associazione Anapa e dalle organizzazioni sindacali Fiba-Cisl (ora First), Fisac-Cgil e Uilca-Uil. Ma il versante previdenziale non è il solo dove il Ccnl Sna-Confsal è stato ritenuto comparativamente meno rappresentativo rispetto all’altro accordo collettivo nazionale. Le dichiarazioni fornite dalla First-Cisl nel giudizio trovano riscontro anche nella recente indagine condotta dall’Inps e dal Cnel dalla quale, attraverso l’incrocio degli archivi dei due enti, è emerso quale copertura effettiva abbiano i Ccnl dei diversi comparti del settore assicurativo depositati presso i rispettivi database (nel censimento mancherebbe il contratto Sna-Confsal).
Estratto da Cnel – Inps. Database Ccnl. Dati relativi al periodo 01/2018-12/2018.
Settore contrattuale Credito e Assicurazioni.
La pronuncia del tribunale genovese, oltre a confermare la sovrapposizione delle due discipline contrattuali, smentirebbe dunque la presunta maggiore rappresentatività della Sna in quanto sul versante delle associazioni imprenditoriali, rileva, come giustamente osservato in sentenza, non solo il numero delle aziende aderenti ma anche la dimensione occupazionale delle stesse. Anche il legislatore sembra aver preso questa direzione giacché nel disegno di legge sulla rappresentanza sindacale (d.d.l. n. 788) all’art. 6, comma 2, individua tra i criteri per misurare la rappresentatività delle associazioni datoriali, oltre che quello della diffusione territoriale, anche quello del “numero delle imprese associate” e del numero del “personale impiegato”. Peraltro, anche sul versante retributivo, il Tribunale di Forlì sembrerebbe aver riconosciuto delle differenze salariali in favore di una lavoratrice condannando quindi la società al pagamento delle stesse tenendo conto del Ccnl Anapa-Fiba-Fisac-Uilca.
L’interesse, la natura e la procedura dell’organizzazione sindacale come primo approccio per superare il problema
La prospettiva d’indagine della giurisprudenza, quindi, sembrerebbe avanzare – oltreché sugli aspetti di natura quantitativa (numero di iscritti, di sedi etc.) – anche sulla “natura” dell’interesse di cui l’associazione sindacale si fa portatrice e in che modo rappresenta l’interesse collettivo, cogliendo così quel suggerimento che da tempo viene sollecitato dalla dottrina (E. Gragnoli, Retribuzione e Occupazione, in A. Vallebona (a cura di), Colloqui giuridici sul lavoro, 2014, n. 1, p. 40 e ss., spec. p. 41; E. Gragnoli, L’impresa illecita, in VTDL, 2018, n. 2, p. 341 e ss.). Più di recente, infatti, è stato osservato che sicuramente è un indice di non genuinità del negoziato il sindacato che svolge “un ruolo di second best nella trattativa, vale a dire [essere] coinvolta di ripiego dall’associazione datoriale quale unica alternativa per tutelare la rappresentanza dei propri iscritti”. Infatti, l’organizzazione sindacale non dovrebbe mai prestare “il fianco all’organizzazione datoriale solo per perseguire, con opportunismo, il mero obiettivo di un riconoscimento contrattuale, disinteressandosi così della reale tutela dell’interesse dei lavoratori destinatari del contratto collettivo. In tale circostanza, infatti, verrebbe meno l’essenza stessa della rappresentatività e della rappresentanza, che si alimenta della forza dell’organizzazione sindacale di aggregare il consenso e comporre il dissenso di una moltitudine di lavoratori per la difesa di un interesse collettivo che qui, a ben vedere, sarebbe inesistente” (P. Tomassetti, La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo nel decreto legislativo n. 81/2015, in DRI, 2016, n. 2, p. 368 e ss., spec. p. 381) . Nel settore assicurativo, quindi, il problema di individuare la categoria contrattuale tra i tanti contratti collettivi sottoscritti non si porrebbe perché il contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni Sna e Fesica-Confsal non potrebbe essere ascritto nell’ambito dell’art. 39 Cost. in quanto non espressione, per metodo e procedura, di un negoziato avente carattere sindacale. Ciò che infatti dovrebbe rilevare ai fini dell’indagine circa la genuinità di un sistema contrattuale è “il momento organizzativo degli interessi collettivi” che “si pone necessariamente come preliminare e quindi come condizionante rispetto al sistema contrattuale” (F. Siotto, La categoria come ambito di applicazione e perimetro di misurazione della rappresentanza, in RIDL, 2017, n. 1, p. 311 e ss., p. 327). Ciò vuol dire che l’individuazione dei diversi interessi rispetto a quelli già sintetizzati nel primo Ccnl, deve avvenire secondo procedure che siano in grado anzitutto di coinvolgere il più possibile i lavoratori del settore e di mettere in risalto le procedure attraverso le quali si compongono gli interessi in conflitto. In questa prospettiva, sarebbe opportuno chiedersi come fa un sindacato che non agisce nell’ambito del settore merceologico, che non ha iscritti nel comparto, a rappresentare un interesse di categoria diverso da quello che nel suo statuo si prefigge di inseguire e rappresentare; oppure, come si fa ad assegnare natura sindacale a un contratto collettivo rispetto al quale non esistono piattaforme rivendicative che individuano le aree tematiche di interesse delle parti, non sono stati proclamati scioperi quali forme di espressione di un determinato conflitto di interessi rispetto a specifici istituti contrattuali ([2]), non sono state esperite procedure di confronto negoziale in sessione plenaria, ristretta o esecutiva, non sono state istituite commissioni tecniche ad hoc. E potremmo continuare (sugli aspetti procedurali v. A. Testoni, Manuale di tecnica delle relazioni industriali, 2014, ed. Giuffrè, p. 219; M. Rusciano, La difficile metamorfosi del contratto collettivo, in AA. VV., Scritti in onore di Edoardo Ghera, ed. Cacucci, Bari, 2008, p. 41 e ss., spec. p. 47).
Questo approccio contribuirebbe a razionalizzare il sistema che oggi, per una “esasperazione” del principio della libertà sindacale, presenta diverse aporie, tra le quali una eccessiva frammentazione della rappresentanza, la mancata verifica della concreta rappresentatività degli attori negoziali, il crescente numero dei c.d. contratti fotocopia etc. (F. Siotto, La categoria come ambito di applicazione e perimetro di misurazione della rappresentanza, cit., p. 335). Non va infatti dimenticato che molte delle “categorie” dei “contratti diversi” non sono che parti o accorpamenti del campo di applicazione dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni aderenti a Cgil, Cisl e Uil, negoziati proprio per fare concorrenza a questi, attraverso clausole mirate a contenere il costo del lavoro. Ne riportiamo alcune.
Analisi comparata di alcune disposizioni del contratto collettivo Sna e del contratto collettivo Unapass.
Estratto da sito della Fisac-Cgil di Vicenza.
Ccnl Unapass | Ccnl Sna | ||
Apprendistato | Durata max 36 mesi | Apprendistato | Durata max da 48 a 60 mesi |
Periodo di prova | max 3 mesi | Periodo di prova | max 6 mesi |
Part-time | Previsto min./max di ore | Part-time | Non c’è orario min. o max ([3]) |
Pertanto, pur riconoscendo ancora l’attualità delle problematiche connesse all’attuazione dell’art. 39 Cost. così come illustrate da P. Ichino, occorre valutare con la dovuta cautela gli accordi collettivi che tracciano nuovi perimetri e quindi nuove categorie contrattuali. Infatti, non tutte le negoziazioni perseguono un interesse di natura sindacale in quanto espressione dello stesso. In altre parole, non tutte le categorie contrattuali vengono forgiate nell’ambito di una procedura contrattuale genuina, che miri prima di tutto a riequilibrare una disparità di potere contrattuale (art. 3, comma 2 Cost.) nonché a calmierare la concorrenza al ribasso tra i prestatori di lavoro.
Un primo tentativo per tutelare un genuino pluralismo contrattuale è indagare volta per volta sui sistemi contrattuali, come nascono, quali interessi tutelano e come si articolano. In questo senso, i suggerimenti provenienti dal tribunale genovese sembrano essere utili. Inoltre, va constatato che al momento, contrariamente a quanto rilevato da più parti, un’indagine sulla rappresentanza datoriale non è poi così determinante ai fini dell’individuazione del contratto collettivo. Ciò che rileva è, invece, la stabilità della compagine sindacale dei lavoratori la quale, infatti, pur negoziando con più associazioni datoriali, riesce a mantenere un equilibrato assetto di interessi tale da non generare dinamiche di dumping salariale. E nel diritto delle relazioni industriali, è rintracciabile una vera e propria tecnica normativa per ovviare a questo tipo di effetti. Vi sono clausole, a tal proposito, che hanno lo scopo di condizionare l’operato delle organizzazioni dei lavoratori nel momento in cui provano a negoziare con altri soggetti un contratto collettivo coincidente del tutto o in parte con il campo di applicazione del primo ([3]). Dunque, immaginando un’ipotetica attuazione dell’art. 39 Cost., non rileverebbe tanto la presenza di più organizzazioni datoriali quanto la composizione di una compagine sindacale unitaria, che deve cercare di unificare gli interlocutori in un unico negoziato, senza che queste possano alimentare dinamiche concorrenziali all’interno della cateogria. Utilizzando questo approccio analitico, di quegli 800 contratti censiti dal CNEL, rimarrebbe ben poca cosa.
Assegnista di ricerca presso il centro studi DEAL (Diritto Economia Ambiente Lavoro)
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
([1]) P. Ichino ha fatto ricorso al medesimo esempio anche in occasione della replica alla pubblicazione della nota dell’INL del 20 giugno 2018 ove si rendeva noto che i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni aderenti alle confederazioni Cgil, Cisl e Uil erano da ritenersi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative rispetto a quelli sottoscritti dalle confederazioni Confsal e Cisal (clicca qui per leggere la lettera di replica all’INL).
([2]) Altro elemento di notevole importanza è lo sciopero e l’apertura dei negoziati. G. Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, ed. Giuffrè, 1977, ristampa inalterata, p. 132-139, ha giustamente sostenuto che nell’ordinamento intersindacale è soprattutto la minaccia dello sciopero a costituire il motore della creazione per via contrattuale di nuovo diritto.
([3]) A titolo di esempio, si veda la clausola contenuta nel contratto collettivo per le aziende esercenti l’industria della carta e cartone, stipulato il 13 settembre 2012, con decorrenza fino al 30 giugno 2015, rinnovato il 30 novembre 2016 con decorrenza fino al 31 dicembre 2019 da Assografici, Assocarta, Slc-Cigl, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, Ugl Carta e Stampa: “Qualora le Associazioni dei lavoratori contraenti dovessero concordare con altre Associazioni di datori di lavoro o di artigiani condizioni meno onerose di quelle previste dal presente contratto, tali condizioni si intenderanno estese alle aziende, che abbiano le medesime caratteristiche e che siano rappresentate dall’Assografici e dall’Assocarta”.