La revisione della disciplina delle mansioni nello schema di decreto attuativo del “Jobs Act”

Nozione e quadro normativo
 
La revisione della disciplina delle mansioni è, come noto, materia di intervento nell’ambito del decreto attuativo del cd. “Jobs Act” (legge n. 183/2014), di prossima emanazione.
Il demansionamento consiste nell’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica di appartenenza (o anche nella non assegnazione ad alcuna mansione) ed è causa di un pregiudizio che riguarda sia la vita professionale e di relazione dell’interessato sia (almeno potenzialmente) la connessa sfera economica.
La norma civilistica di riferimento è l’art. 2103 c.c., sostanzialmente modificato dall’art. 13, dello Stat.lav., in base al quale il lavoratore “deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. …Ogni patto contrario è nullo”.
In particolare l’art. 13,della legge n. 300/1970 ha introdotto, in tema di mansioni, il principio della “inderogatio in pejus”, ad opera della pattuizione individuale.
Si tratta di un principio-cardine del diritto del lavoro, specificamente contemplato dal legislatore per gli aspetti più significativi del rapporto di lavoro.
 
Le deroghe in tema di mansioni nella legge, nella contrattazione collettiva e nella giurisprudenza
 
Il principio della nullità dei patti contrari, stabilito dall’art. 13, Stat. Lav., è stato nel corso degli anni drasticamente circoscritto da ripetuti interventi legislativi e giurisprudenziali nonché da alcune recenti previsioni contrattuali.
In base all’articolo 4, comma 11, della legge n. 223/1991, gli accordi stipulati in sede di procedure di mobilità possono stabilire, in deroga all’articolo 2103, c.c., l’assegnazione a mansioni diverse, anche inferiori. Alla stessa ratio si ispirano le disposizioni a tutela della disabilità in caso di infortunio o malattia (legge n. 68/1999) e quelle a tutela della maternità (d.lgs. n. 151/2001).
Analogamente, per esigenza di salvaguardia del posto di lavoro, l’articolo 42 del d.lgs. n.81/2008 legittima l’assegnazione del lavoratore (divenuto inidoneo) a mansioni inferiori, in quanto compatibili con il suo stato di salute.
La sanzione della nullità dei patti di demansionamento è peraltro superata anche da specifiche previsioni contrattuali, tra cui l’art. 20 del CCNL, del 2012, del settore credito (che, a tutela dell’occupazione e prima di ricorrere all’applicazione della legge n. 223/91, stabilisce la possibile “assegnazione del lavoratore a mansioni diverse anche in deroga all’art. 2103 c.c.”).
A livello di contrattazione aziendale (o territoriale) una generale causa di deroga al principio di invariabilità “in pejus” delle mansioni è stata inoltre introdotta dall’articolo 8 della legge n. 148/2011 (sul sostengo alla contrattazione collettiva di prossimità). Sono infatti legittime, per determinate finalità, le specifiche intese volte tra l’altro a regolare, in senso derogatorio, le mansioni, la classificazione e l’inquadramento del personale (ex art. 8 comma 2), con il solo limite del rispetto dei principi fissati dalla Costituzione e dei vincoli derivanti dalla normativa internazionale e comunitaria.
Anche la giurisprudenza ha significativamente mitigato l’assolutezza del principio dell’inderogabilità in peius, in tema di mansioni, giustificando il demansionamento con il prevalente interesse alla salvaguardia dell’occupazione (Cass. n. 23926/2010) o anche solo ai fini di facilitare la gestione di situazione di crisi aziendale (Cass. n. 2375/2010). Oltre alla causa altro elemento che può legittimare il demansionamento è la sua durata temporanea (cfr., tra le altre, Cass. n. 3844/2015).
 
 
Il demansionamento nel decreto attuativo tra potere unilaterale e disciplina pattizia
 
La delega conferita al Governo dall’art. 1, comma 7, lett. e), della legge n. 183/2014, intende rivedere ulteriormente la materia, superando di fatto il disposto di cui all’articolo 13 della legge n. 300/1970. Si ammette in particolare la revisione della disciplina delle mansioni “…in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi”. “Ulteriori ipotesi…” di deroga possono peraltro essere individuate ad opera della contrattazione collettiva, anche aziendale.
Nello schema di decreto attuativo l’intento di legittimare le imprese a modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore, anche in assenza di accordo sindacale, si ricava dal combinato disposto dei commi 2 e 4, dell’art. 55 (“In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore”, comma 2; “Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, comma 4).
A ben vedere tuttavia la formulazione letterale della norma pare viziata per eccesso di delega. Il criterio di delega sopra menzionato ammette infatti la revisione della disciplina delle mansioni in presenza di modifiche organizzative determinate “sulla base di parametri oggettivi...”. In sostanza, l’esercizio della prerogativa aziendale di decidere il demansionamento non pare estendersi alle circostanze che ne fondano il presupposto.
Si tratta di capire quali siano e chi definisce tali parametri. A nostro avviso non potranno che essere determinati dal datore di lavoro in accordo con le rappresentanze sindacali in azienda, in una logica di partecipazione al miglioramento dell’organizzazione del lavoro. In tale prospettiva è da preferire dunque un’interpretazione che affidi alla contrattazione collettiva, anche aziendale, la possibilità di assegnare il lavoratore ad un livello inferiore non solo nelle “ulteriori ipotesi”, di cui al comma 4, dell’art. 55, ma in particolare proprio in caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore” (art. 55, comma 2). La necessità di un previo accordo almeno sul riconoscimento delle situazioni obiettivamente legittimanti il ricorso al demansionamento sembra rappresentare un “quid novi” rispetto all’assetto normativo esistente ed un ragionevole punto di equilibrio del sistema. D’altro lato andrebbe previsto il necessario consenso del lavoratore in tutti i casi di sua adibizione ad un livello inferiore, stante il profilo strettamente personale del diritto alla professionalità.
Lo schema di decreto precisa inoltre che il lavoratore “…può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore”. Il demansionamento può dunque riguardare soltanto il livello di inquadramento immediatamente inferiore e non l’attribuzione ad altri livelli.
Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” (comma 4). La contrattazione collettiva, in tal caso, non si limita a definire parametri oggettivi, in relazione a modifiche organizzative, per ammettere l’adibizione a mansioni inferiori, ma è chiamata a individuare nuove e diverse ipotesi di demansionamento, potendone fattivamente regolare gli effetti giuridico-normativo (nel limite comunque di un solo livello di inquadramento).
Accanto alle forme di deroga pattizia mediante accordo collettivo, il legislatore pone anche, al comma 6 dell’art. 55, specifiche ipotesi di modifica delle mansioni mediante pattuizione individuale. Attraverso infatti accordi individuali “assistiti”, sottoscritti cioè in sede sindacale o presso la Direzione territoriale del lavoro o le commissioni di certificazione, si potranno modificare le mansioni, nonché il livello di inquadramento e la relativa retribuzione, in tre specifici casi nell’interesse del lavoratore: alla conservazione dell’occupazione (per evitare il licenziamento); all’acquisizione di una diversa professionalità; al miglioramento delle condizioni di vita.
Al di fuori dei casi di demansionamento legittimo sopra menzionati, quale “norma di chiusura” del sistema, si sancisce che “ogni -ulteriore- patto contrario è nullo”, e dunque improduttivo di effetti.
E’ solo il caso di segnalare che il mutamento di mansioni deve essere accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento, contrariamente a quanto previsto nello schema di decreto, dovrebbe determinare la nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni. Ciò sia perché la formazione è da ritenere sempre più un diritto fondamentale del lavoratore, ponendolo al riparo da eventuali inadempienze rispetto a mansioni che, seppur inferiori, non conosce in quanto di norma non esercitate, sia perché le nuove mansioni possono esporlo a rischi per la sua salute e sicurezza.
 
 
Il principio di “irriducibilità della retribuzione”
 
Altro aspetto problematico riguarda il principio di cd. “irriducibilità della retribuzione” ovvero invariabilità in pejus del livello retributivo acquisito.
Anche tale principio è sancito dall’art. 2103 del c.c.
La questione dell’irriducibilità della retribuzione è affrontata dal comma 5 dell’art. 55 del decreto in esame. Essa riguarda esclusivamente i casi di demansionamento connessi a riorganizzazione aziendale e le altre ipotesi individuate dalla contrattazione collettiva. Al riguardo si prevede che “…il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.” Dottrina, giurisprudenza e prassi contrattali sono da sempre concordi nell’individuare unicamente negli elementi indennitari della retribuzione le voci economiche accessorie e variabili, da considerare non definivamente acquisite allo “status economico” del lavoratore.  Al riguardo è da ritenere che la formulazione utilizzata nel decreto debba essere ricondotta al significato pacificamente riconosciuto, non contenendo alcun elemento di novità.
Sul punto è peraltro da precisare che con gli accordi individuali “assistiti”, di cui al comma 6, dell’art. 55, si potrà intervenire non solo per una modifica delle mansioni ma anche “del livello di inquadramento e della relativa retribuzione” (sempre comunque “nell’interesse del lavoratore”).
 
 
Lo svolgimento di mansioni superiori
 
Nel caso di assegnazioni a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi” (art. 55, comma 7).
La norma riconosce dunque il diritto del lavoratore al trattamento corrispondente all’attività svolta, e alla definitiva assegnazione, “salva diversa volontà del lavoratore”. Tale inciso pare ammettere la possibilità di rinuncia da parte del lavoratore. Il contesto di minore stabilità del rapporto di lavoro, per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, può peraltro determinare incertezza e maggiore possibilità di abusi. Si tratta in ogni caso di rinuncia riconducibile all’art. 2113 c.c., che potrà dunque ritenersi legittima solo nelle forme della cd. deroga assistita, previste dall’ultimo comma dell’art. 2113 c.c.
Ulteriore spunto interpretativo riguarda il tema delle pattuizioni collettive (sia di settore, sia aziendale) concernenti il nuovo termine di legge per la maturazione del diritto alla qualifica superiore. In base all’attuale disciplina (art. 2103 c.c.) “l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi.” Tale norma prevede dunque la possibilità, per la contrattazione collettiva, di fissare un termine diverso e migliorativo da quello previsto ope legis.
La nuova formulazione prevista dall’art. 55, comma 7, sancisce invece che l’assegnazione diventi definitiva “dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, … o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi”. Le differenze che emergono dalla comparazione dei due testi normativi riguardano, oltre alla durata dell’assegnazione (sei mesi in luogo di tre) ed il suo carattere continuativo, soprattutto il fatto che la contrattazione collettiva potrà ora modificare anche in pejus (e cioè allungandolo ulteriormente) il nuovo termine di sei mesi.
La nuova disciplina legittima peraltro anche quelle clausole contrattuali, peggiorative rispetto al termine massimo di tre mesi, al fine della definitiva acquisizione dell’inquadramento superiore corrispondente. E’ il caso, ad esempio, dell’art. 83 comma 2 del CCNL 2012, del settore credito (rinnovato il 31 marzo 2015 senza modifiche sul punto e in attesa di validazione assembleare e successiva traduzione in articolato), che prevede, in deroga – per questo specifico aspetto – all’art. 2103, 1° comma, c.c., l’assegnazione definitiva del lavoratore alla categoria dei quadri direttivi, ovvero ai relativi livelli retributivi, “quando si sia protratta per il periodo di 5 mesi”.
 
 
Spunti conclusivi
 
In conclusione la revisione della disciplina delle mansioni posta dallo schema di decreto non può ritenersi al momento del tutto soddisfacente.
Il modo di declinare efficacemente certezza del diritto e flessibilità organizzativa, insieme al mantenimento di garanzie individuali (che si traducono in coesione sociale), è quello di affidare la materia del demansionamento principalmente alle parti sociali, salvaguardando al contempo la volontà del lavoratore. Solo la contrattazione collettiva può infatti, tenuto conto dei diversi contesti settoriali e aziendali, declinare gli opposti interessi in sintesi equilibrate che garantiscano la prevenzione dei conflitti.
 
Domenico Iodice
Consulente giuridico First-Cisl
 
Marco Lai
Centro Studi Nazionale Cisl di Firenze
 
* Un articolo più ampio è in via di pubblicazione in Diritto & Pratica del Lavoro, Wolters Kluwer editore.
 
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La revisione della disciplina delle mansioni nello schema di decreto attuativo del “Jobs Act”
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