ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Bollettino ADAPT 15 maggio 2023, n. 18
Il quadro legislativo
Le avvisaglie e le anticipazioni del Decreto Lavoro, in particolare per quanto riguarda le modifiche al Reddito di Cittadinanza e, nello specifico, le misure per i cosiddetti “occupabili” e le politiche attive del lavoro, non permettevano di avere grandi aspettative. Eppure si sperava che, nel passaggio dalle bozze all’ufficialità, il Governo, pur senza propagandarlo, potesse inserire una sorta di “salvacondotto” per non penalizzare, in maniera quasi feroce, una platea piuttosto cospicua di percettori. Purtroppo tocca constatare che non c’è stato alcun ravvedimento in merito.
Il nuovo Decreto Lavoro introduce l’Assegno d’inclusione «quale misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e politica attiva del lavoro» (art 1). Accanto a questo strumento ne affianca un altro, distinto, chiamato Supporto per la formazione e il lavoro all’art 12 del testo di legge. L’Assegno d’inclusione ricalca, in larga parte, il Reddito di Cittadinanza sia come requisiti che come sussidio erogato confermando il ruolo dei servizi sociali comunali in merito. Non altrettanto può dirsi per la seconda misura che vede completamente stravolto il meccanismo fin qui seguito. In questo contributo cercheremo di concentrarci proprio su questo fronte ma prima è necessario specificare alcuni passaggi.
Il Governo ha inteso dividere, in maniera piuttosto artificiosa, la platea attuale interessata dal RdC in “non occupabili”, cioè tutti i nuclei familiari che hanno al loro interno un minore, un disabile o un over 60 e gli “occupabili”, cioè tutti i soggetti tra 18 e 59 anni che, ovviamente, non sono anch’essi disabili o inabili. Per i primi il sussidio continuerà fino a dicembre 2023 e, dall’anno successivo, potrà richiedere l’Assegno d’inclusione per una durata massima di 18 mesi e un rinnovo, dopo un mese di pausa, di altri 12; mentre l’altra platea perderà il sussidio a luglio del 2023 e potrà richiedere il Supporto per la formazione e il lavoro solo in alcuni specifici per la durata massima di 12 mesi. Per fortuna, giova sottolinearlo, nell’art 13, dedicato alle norme transitorie e finali, si è deciso di includere tra i “non occupabili” anche tutti quei soggetti che, pur non avendo i requisiti richiesti, sono già in carico ai servizi sociali dei Comuni entro il 30 giugno 2023. Si auspica che questa norma transitoria possa vedere una sua più compiuta definizione nei mesi seguenti con circolari dedicate. Sia gli “occupabili” che i “non occupabili” attivabili dal punto di vista lavorativo devono obbligatoriamente, pena la mancata erogazione del beneficio, iscriversi ad una nuova piattaforma chiamata Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa (SIISL) che dovrà realizzare l’Inps ma di cui ancora non c’è traccia. Peraltro è dalla riforma del 2015 del Governo Renzi che si parla della realizzazione di questi strumenti che non hanno mai visto la luce.
Nei nuclei interessati all’Assegno d’inclusione i membri maggiorenni disoccupati, senza carichi di cura e non iscritti ad alcun corso di studio, devono accedere alle politiche attive del lavoro firmando il patto di servizio personalizzato (già previsto dal RdC) e dimostrare di essersi iscritti ad almeno tre agenzie private per il lavoro o enti accreditati. Inoltre scompare il riferimento all’accettazione di una o più offerte congrue, che tanti dibattiti ha alimentato, per essere sostituito da una singola offerta da accettare che, se a tempo indeterminato e tempo pieno o parziale non inferiore al 60%, può essere senza limiti territoriali dal proprio domicilio, mentre, se a tempo determinato non deve distare più di 80 km dalla propria abitazione. Infine, in maniera residuale, i servizi sociali, dopo una valutazione multidimensionale, possono affidare alcuni utenti ai servizi per l’impiego.
La misura invece del Supporto per la formazione e il lavoro può essere attivata solo per gli utenti che aderiscono a dei percorsi di politiche attive del lavoro e più nello specifico percorsi di qualificazione o riqualificazione professionale, progetti utili alla collettività o il servizio civile. Vi sono stringenti requisiti economici e il contributo è quantificato in una spesa forfettaria di 350 euro per ogni singolo componente aderente al servizio. Di fatto si tratta di un’indennità di partecipazione erogata solo dal momento in cui inizia il percorso formativo e per tutta la sua durata.
Alcune considerazioni
I limiti della riforma sono stati già evidenziati in diversi interventi ma giova riportarne qualcuno tra i più evidenti: il primo punto debole è la scelta, arbitraria e ideologica, che divide i soggetti tra “occupabili” e “non occupabili”. Un carico familiare è sicuramente uno dei fattori che incide sulla capacità individuale di un lavoratore ma identificarlo, in maniera assoluta, come un soggetto da destinare ai servizi sociali appare spericolato. Inoltre pone una discriminazione importante nei confronti dei single che, più dei nuclei, sono quei soggetti maggiormente a rischio emarginazione proprio perché non hanno una rete familiare di supporto anche solo a livello relazionale.
Se poi applichiamo tutto ciò alla platea dei percettori RdC, che ormai tutte le analisi statistiche indicano come soggetti estremamente vulnerabili, la scelta del Governo appare ancora più incomprensibile. Ricordiamo che il 70% dei beneficiari ha un livello di scolarizzazione molto bassa, terza media o quinta elementare, non ha lavorato, se non per brevissimi periodi, negli ultimi 3 anni e quando lo ha fatto è sempre stato in settori a bassa professionalità. Inoltre spesso ha grosse lacune digitali e non possiede alcun mezzo di trasporto.
Se analizziamo nello specifico la misura del Supporto per la formazione e il lavoro, non si comprende perché una persona che si inserisca in un percorso formativo che, realisticamente, costerà tempo e fatica, debba avere una soglia Isee più bassa, rispetto all’Assegno d’inclusione, per accedervi (6.000 euro) e un sussidio di soli 350 euro. Una cifra così bassa, non integrata neppure da una quota per la casa, risulta assolutamente insufficiente per vivere.
C’è poi un nodo strutturale da affrontare: l’atavica debolezza dei servizi all’impiego (pubblici e privati) e del mondo della formazione regionale estremamente disomogenea sui territori e non sempre adeguatamente legata al mondo del lavoro. Non è quindi detto che un utente possa trovare un corso di formazione adatto a lui, che parta in tempi brevi (in tal senso il timing della perdita del beneficio economico derivante dal RdC a luglio appare quasi punitivo), sia collegato ad un’opportunità professionale da cogliere, peraltro, immediatamente alla fine del percorso formativo. Una concatenazione di eventi, per chiunque conosca il sistema italiano, piuttosto irrealistica. La realtà ci restituisce un quadro molto più complesso dove tra la presa in carico da parte dei Centri per l’Impiego o degli enti accreditati e l’individuazione e la frequenza di un corso di formazione adatto all’utenza possono passare mesi. Gli stessi corsi di formazione, spesso, hanno una durata assolutamente insufficiente per l’acquisizione di competenze. Il passaggio successivo, poi, cioè tra il momento educativo e il mondo del lavoro, è ancora più difficile e lungo.
Infine non si può fare a meno di dubitare della possibilità di realizzare l’ennesima piattaforma nazionale già naufragata sia nei progetti della riforma del mercato del lavoro del 2015, sia nella versione gialloverde del 2019. Tra l’altro i tempi di progettazione appaiono troppo stretti per pensare che un simile strumento possa effettivamente essere attivo a luglio. In ogni caso credere che la platea RdC, di cui prima abbiamo accennato, sia capace di autoprofilarsi o che questo possa aiutare l’incrocio domanda-offerta dei beneficiari, significa ricalcare errori del passato che hanno dimostrato una realtà ben più complessa.
Alcuni possibili correttivi
Nonostante tutti questi limiti è chiaro che il Governo non ritirerà i contenuti del Decreto per cui, si spera, nella conversione in legge e nei decreti attuativi, si trovi lo spazio per un approccio meno ideologico e più pragmatico.
Per prima cosa, dati i tempi ristretti, bisognerebbe permettere anche agli “occupabili” di poter mantenere il RdC fino a dicembre 2023. È infatti evidente che la piattaforma SIISL non sarà operativa alla fine di giugno, mancano i tempi tecnici per una sua progettazione e realizzazione. Inoltre poco o nulla è stato fatto sul fronte del mondo della formazione. C’è, insomma, il serio rischio che a questa platea non venga offerto alcuno strumento per poter effettivamente usufruire del Supporto per la formazione e per il lavoro. Guadagnando tempo fino a dicembre, è possibile apportare alcuni correttivi attenuando distorsioni e penalizzazioni che appaiono eccessive.
In tal senso, nei mesi successivi, attraverso la Conferenza Stato-Regioni e coinvolgendo Anpal, pur mantenendo l’assetto della governance attuale, si possono costruire dei progetti che mettano mano alla galassia dei corsi di formazione valorizzando sinergie che, in alcuni territori, già esistono: gli enti accreditati per il lavoro, il Terzo Settore, i Centri di Formazione per adulti per recuperare i debiti scolastici, gli ordini professionali per la progettazione di percorsi formativi, i Comuni per valorizzare ed estendere il progetto dei PUC previsti dal RdC e su cui questa riforma è lacunosa.
Insieme a questo lavoro di progettazione si dovrebbe fare un reale bilancio del piano di potenziamento dei Centri per l’Impiego monitorando non soltanto le assunzioni realizzate rispetto a quelle previste ma anche guardando, al netto di pensionamenti, mobilità e dimissioni, quante, effettivamente, siano le risorse strutturali su cui i diversi sistemi regionali possono contare. Una volta fatto ciò bisogna sbloccare i concorsi pensando anche ad una selezione nazionale gestita dal Ministero (che si occuperebbe solo delle prove concorsuali. I vincitori sarebbero poi assunti dai diversi attori istituzionali territoriali) con criteri univoci per tutte le Regioni dove i candidati possano già selezionare una provincia di riferimento. In tal senso le procedure utilizzate per l’assunzione dei Navigator possono essere utili. In quel frangente, infatti, era possibile selezionare un solo territorio per il quale concorrere riducendo l’effetto distorsivo delle tante richieste di mobilità di cui la PA soffre da tempo. Sarà così anche possibile, finalmente, trovare una soluzione strutturale alla vertenza dei Navigator la cui attuale inattività è uno spreco di profili altamente formati e con un’esperienza triennale alle spalle che va assolutamente valorizzata per dare continuità ad una comunità professionale troppo spesso ingiustamente bistrattata.
Infine si dovrebbe costruire un reale agganciamento con il programma GOL che è attualmente la misura di politica attiva prevalente, inserita all’interno del PNNR e che sta mostrando diversi limiti soprattutto nei confronti dei soggetti più vulnerabili. Questa potrebbe essere l’occasione per ricalibrare questo strumento rendendolo più proficuo dal punto di vista qualitativo invece di concentrarsi, come succede attualmente, su risultati puramente quantitativi.
Fare tutto ciò non è un’impresa semplice, significa superare egoismi istituzionali, rendite di posizione quasi strutturali, assistere i territori che sono rimasti maggiormente indietro sul fronte delle politiche attive del lavoro. Non potrà essere tutto realizzato in pochi mesi, sarà necessario compiere dei passi graduali e inserire correttivi e follow up continui ma, quantomeno, si comincerà a delineare una strategia. Il reinserimento professionale, l’acquisizione di nuove competenze, la transizione digitale, passano da un lavoro lungo e faticoso che deve darsi tempi adeguati e un pizzico di lungimiranza. Nell’era dominata dai social può apparire difficile, ma altre vie non esistono. Mantenere l’attuale impianto metterebbe a rischio la tenuta sociale di interi territori e priverebbe un’utenza debole e fragile di un supporto doveroso in un Paese fondatore dell’Unione Europea.
Antonio Lenzi
Socio fondatore A.N.NA. (Associazione Nazionale Navigator)
@lenzi_antonio