La legge delega sul c.d. Jobs Act, in corso di pubblicazione, contiene un importante riferimento alla riforma della disciplina sanzionatoria del lavoro, che si pone in linea di continuità con la filosofia del d.lgs. n. 124/2004 diretta a valorizzare la funzione premiale e non solo repressiva del sistema. L’art. 1, comma 6, lett. f) della legge delega approvata dalle Camere dispone una revisione del regime delle sanzioni, che tenga conto dell’eventuale natura formale della violazione, in modo da favorire l’immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita, nonché la valorizzazione degli istituti di tipo premiale. È interessante osservare come la delega legislativa può tradursi in norme concrete ed operative nell’emanando decreto delegato.
Sembra opportuno premettere che l’ottica generale dell’intervento normativo, in cui si inserisce la norma in commento, è quella della semplificazione amministrativa e velocizzazione dei tempi procedimentali, in vista del noto obiettivo di ridurre gli ostacoli burocratici a carico del sistema produttivo nazionale e di aumentarne la competitività nell’ambito della spietata concorrenza globale (cfr. comma 5 della delega legislativa). Non bisogna, peraltro trascurare, che, come rammenta un recente intervento del Parlamento europeo (Risoluzione del 14 gennaio 2014 sulle ispezioni sul lavoro «efficaci come strategia per migliorare le condizioni di lavoro in Europa»), i risultati delle ispezioni devono essere elaborati entro un termine ben definito, onde impedire tempestivamente gli abusi e garantire prontamente la tutela all’interessato. Pertanto, il Consesso comunitario ha evidenziato che la celerità degli accertamenti risponde anche all’interesse del lavoratore.
Una corretta lettura della disposizione non può dunque prescindere dallo scopo normativo di razionalizzazione, anche in una prospettiva de jure condendo.
È ampiamente noto come la riforma dell’attività ispettiva prevista dal d.lgs. 124/2004 abbia costituito un passaggio fondamentale nel mutamento di prospettiva della vigilanza, da mera attività di repressione degli illeciti ad opera (anche) di prevenzione e promozione della legalità. La revisione ad opera della legge n. 183/2010 ha confermato ed ampliato in chiave semplificatoria tale impostazione. Gli istituti della diffida e del verbale unico (art. 13), della prescrizione (art. 15), della conciliazione monocratica (art. 11) e della disposizione (art. 14) dimostrano ampiamente l’assunto.
Per quanto concerne in particolare la diffida, tale strumento premiale ha costituito, nell’elaborazione del Ministero del lavoro (Cfr. circolari n. 24/2004 e n. 9/2006), una sorta di spartiacque tra sanzioni: da una parte si collocano quelle, definite “formali” e quindi sanabili, per le quali è utilizzabile l’istituto in discorso, mentre dall’altra quelle insanabili ed insuscettibili di divenire oggetto di diffida. In linea di massima, a tale distinzione corrisponde quella tra beni protetti di rango costituzionale (salute e posizione contributiva del prestatore, finanze erariali, buona andamento della PA, ecc.), rientranti nella seconda categoria, e quelli di rango inferiore, per lo più di carattere documentale, in relazione ai quali può essere utilizzata la diffida. Tale cruciale distinzione, tuttavia, risale solo ad una impostazione ministeriale; considerata la rilevanza del tema e l’espresso riferimento legislativo alla natura formale delle violazioni, la sede attuativa del Jobs Act può rappresentare un’occasione per conferire dignità normativa primaria alla distinzione cennata e per chiarirne ulteriormente i criteri di applicazione. In tale contesto si innesta la questione dell’inserimento della fattispecie del lavoro sommerso (art. 3, comma 3 del dl n. 12/2002, convertito in l. n. 73/2002 e successive modificazioni) tra le violazioni suscettibili di diffida; com’è noto, tale collocazione ha visto alterne vicende, fino all’attuale esclusione operata con dl n. 145/2013. Sul punto può dirsi che la preclusione dell’operatività dell’istituto premiale per la fattispecie in argomento appare giustificata sul piano sistematico, atteso che quest’ultima è diretta a tutelare beni di ragguardevole rango, non certo “formale” (posizione contributiva del lavoratore, casse previdenziali, corretta concorrenza tra imprese). Tuttavia, l’impressione dettata dall’esperienza suggerisce che l’istituto, sotto più profili, aveva dato buona prova di sé anche in riferimento al lavoro sommerso. In relazione alla tutela del lavoratore, esso comportava l’immediata regolarizzazione, anche contributiva, del rapporto di lavoro; riguardo alla posizione della PA, si è assistito ad un’indubbia diminuzione del contenzioso, congiunta ad una celere riscossione delle sanzioni; infine, dal versante del datore di lavoro il trattamento sanzionatorio più favorevole ha spesso incentivato il rapido rispristino della legalità. Come si vede, si tratta di aspetti che attengono chiaramente all’obiettivo di semplificazione e di promozione della legalità che caratterizza il provvedimento in esame.
Quanto ai profili procedimentali, la visione semplificatoria ed acceleratoria del progetto normativo sembra favorire l’approvazione di norme che rendano più certi i tempi e superino passaggi ormai superflui. In ordine al primo problema, il decreto di attuazione potrebbe risolvere la questione della durata degli accertamenti (art. 14, comma 2 della legge n. 689/81), attualmente affidata alle non sempre stabili interpretazioni ministeriali (cfr. circolari nn. 41/2010 e 6/2014). Invero, sembra non più rinviabile l’adozione di una organica disciplina speciale del procedimento sanzionatorio amministrativo in materia di lavoro e previdenza, analogamente a quanto si registra in ambito tributario (d.lgs. n. 472/1997). L’insufficienza della “vecchia” legge n. 689/81 appare evidente a chi rifletta, tra l’altro, sulle scansioni procedimentali previste dall’art. 13 del d.lgs. n. 124/2004, nonché sui caratteri del verbale unico di accertamento e notificazione, difficilmente conciliabili con il termine concepito dall’art. 14 comma 2 della legge n. 689 cit.. Inoltre, la stessa diffida sopra menzionata, che costituisce una peculiarità del procedimento sanzionatorio del lavoro, ha reso superfluo l’istituto del pagamento in misura ridotta di cui all’art. 16 della legge 689 cit.. La prassi applicativa ha infatti evidenziato rari casi in cui il soggetto inottemperante alla diffida abbia successivamente versato l’importo sanzionatorio ridotto, che normalmente corrisponde al doppio di quello che accompagna la diffida stessa. La soluzione più appagante, per tutti i soggetti coinvolti nel procedimento, appare il superamento della fase del pagamento in misura ridotta, cosicché colui che non ritenga di adeguarsi alla diffida venga direttamente sottoposto al trattamento sanzionatorio definitivo dell’ordinanza ingiunzione di cui all’art. 18 della legge n. 689 cit.. Tale riduzione dei tempi di definizione della procedura risponderebbe anche ad una maggiore efficacia general-preventiva della sanzione.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
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