Perché continuare a chiamarlo apprendistato se manca il Piano Formativo Individuale? La tanto attesa semplificazione prevista nella Jobs Act di Renzi si è trasformata nella eliminazione di un elemento importante e caratterizzante il contratto di apprendistato professionalizzante. L’iniziativa governativa ha, infatti, messo in discussione il tema della formazione e del Piano Formativo Individuale prevedendo il ricorso alla forma scritta per il solo contratto e patto di prova.
Questa decisione, dettata dalla forte burocrazia in ambito nazionale e regionale, ha creato il c.d. effetto butterfly sui progetti promossi per valorizzare e diffondere buone pratiche di redazione di Piani Formativi Individuali. Tra questi c’è quello avviato due anni fa dall’Associazione Nazionale dei Consulenti del Lavoro della Regione Veneto e ADAPT (cfr. E. Massagli, L. Petruzzo, A. Stella, I Piani Formativi per l’apprendistato: l’esperienza di ADAPT – ANCL Veneto, in Bollettino ADAPT, 2013, 22) volto a semplificare e perfezionare la tecnica di stesura del Piano Formativo Individuale (PFI).
Una semplificazione al contrario, dunque, dove si è preferito aggirare l’ostacolo accontentando chi non crede nel valore positivo della formazione e nello sviluppo delle competenze. Nessun dubbio sulla necessità di una agevolazione ma che, forse, andava pensata e rivolta maggiormente alla burocrazia e alla rigidità che molti addetti ai lavoro sono costretti a superare.
Speriamo che questa semplificazione rivolta all’apprendistato si possa considerare solo presunta. Nonostante venga meno il Piano Formativo Individuale resta l’esigenza di poter dimostrare la oggettiva presenza di un percorso formativo adeguato che potrà portare comunque i datori di lavoro a dover (e speriamo a voler) strutturare procedure formali utili a tale scopo.
Si aggiunge, poi, il fattore di rischio rappresentato da possibili rilievi da parte degli organi di vigilanza con potenziale messa in discussione della importante dote di riduzione contributiva propria dell’apprendistato. Qualora le imprese dovessero ritrovarsi giovani apprendisti non inseriti in un sistema di buona prassi coordinata e, quindi, costruito attraverso un progetto formativo e accompagnato da un impianto di valutazione e certificazione delle competenze, è facile immaginare come nuovi assetti procedurali lasciati alla creatività degli operatori porteranno in direzione opposta rispetto all’obiettivo di semplificazione enunciato.
È stato più semplice nascondersi dietro ad un dito piuttosto che promuovere la valenza formativa del contratto di apprendistato. Non possono di certo spaventare le 120 ore in tre anni di formazione esterna all’azienda, tra l’altro ridotte a 80 ore per gli apprendisti diplomati e addirittura a 40 ore per quelli laureati. Altrettanto non può essere sminuito un contratto a tempo indeterminato (quello dei sogni di molti giovani italiani) e a tutele crescenti a causa di una formazione professionalizzante e in grado di sviluppare quelle competenze, di base e tecniche, tanto richieste dal mercato del lavoro.
Il Piano Formativo Individuale, quindi, rappresenta l’abito su misura di quel giovane che entra in azienda, spaesato e alla ricerca di una guida e di un orientamento verso un mestiere. Il progetto promosso da ADAPT e ANCL Veneto ci ha provato e ci ha creduto e lo dimostrano i 200 e più prototipi di Piani formativi precompilati messi a disposizione ai Consulenti del Lavoro veneti aderenti al progetto e in grado, oggi, di gestire in completa autonomia la redazione di questi ultimi (cfr. L. Petruzzo, A. Stella, Oltre la burocrazia: un modello di Piano Formativo semplice e veloce da scrivere, in Bollettino ADAPT, 2014, n. 6).
È bastato, dunque, un battito di ali di farfalla (assimilabile alla Jobs Act) per provocare uno “tsunami” etico e di valore formativo oltre che di placement dei giovani verso il tanto agognato mondo del lavoro.
ADAPT Research Fellow
@PetruzzoLidia
Vice Presidente ANCL u.p. Vicenza