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Bollettino ADAPT 9 gennaio 2023, n. 1
Nel precedente articolo dopo un primo inquadramento tematico del concetto di assenteismo si è riflettuto sulle conseguenze per l’impresa e sul margine d’intervento di quest’ultima nel contenerne i relativi impatti.
Infatti, tutte le casistiche di assenza del dipendente influenzano il costo e l’organizzazione del lavoro ma alcune di esse – come ad esempio le ferie, i ROL e le festività – non rientrano nel concetto di assenteismo che va inteso, invece, come il delta tra le ore lavorabili e quelle effettivamente lavorate (si veda il grafico dell’articolo precedente).
Adesso si scenderà ancor più nel dettaglio del fenomeno, nel tentativo di comprendere cosa ne determini l’intensità, per ipotizzare, poi, i possibili rimedi che l’azienda può applicare per promuovere un alto tasso di presenza.
Guardando i dati del 2019 del Centro Studi di Federmeccanica troviamo un elenco delle voci conteggiate nel tasso di assenteismo e un prospetto del loro peso sul dato complessivo.
Causale | Ore pro capite |
Infortuni | 5,2 |
Malattie non professionali | 57,6 |
Congedi retribuiti (es. maternità e paternità, matrimoniali) | 20,7 |
Altri permessi retribuiti (permessi sindacali ex art.23, permessi per cariche pubbliche ed elettive, permessi per studio, ex legge 104/92) | 15,5 |
Assenze per sciopero | 2,3 |
Altre assenze non retribuite (es. permessi ex art.24, permessi per i consiglieri di parità, assenze ingiustificate) | 4,1 |
Ore di assemblea | 1,7 |
Totale | 107,1 |
Dai dati raccolti risulta che il 54% del totale delle ore pro-capite di assenza (57,7 su 107,1 in totale) è dovuto alla malattia non professionale. Precisiamo che sono stati scelti dei dati riferiti a un periodo precedente l’emergenza pandemica così da evitare l’interferenza della variabile “Covid-19. Inoltre, osservando i dati suddivisi per qualifica professionale (figura 1) notiamo come il tasso di assenza per malattia sia molto più alto tra gli operai che tra i quadri e gli impiegati ed è naturale domandarsi se ci sia effettivamente un tasso di morbilità così differente tra queste categorie di lavoratori.
Figura 1
Se la domanda fosse relativa alla differenza tra i tassi di assenza per infortunio la risposta sarebbe senz’altro ovvia anche se, in ogni caso, i rischi che si corrono in ufficio non devono essere sottovalutati. Tuttavia, se parliamo di malattia non professionale la risposta non è altrettanto scontata e possiamo dedurre che non solo la malattia incide in maniera preponderante sull’intensità del fenomeno dell’assenteismo ma è, con ogni buona probabilità, il luogo in cui si annidano i casi gestionali di maggiore interesse per l’azienda.
Ciò in quanto l’assenza per malattia è un fenomeno molto complesso, influenzato da una serie di fattori sociali, organizzativi e individuali (vedi Dekkers-Sanchez, Hoving, Sluiter, & Frings-Dresen, 2008). Diversi studi hanno mostrato l’esistenza di una correlazione tra il tasso di assenteismo e lo scarso grado di attaccamento all’organizzazione e/o di soddisfazione professionale dei dipendenti (Farrell & Stam, 1998; Mathieu & Kohler, 1990; Sagie, 1998; Stansfeld, Head, & Ferrie, 1999). Ciò concorda con la nozione di assenteismo ‘volontario’, che si configura come una fuga o addirittura una protesta contro circostanze lavorative avverse (Chadwick-Jones, Nicholson, & Brown, 1982).
Invece laddove sussistano fattori di grave stress psicologico nell’ambiente lavorativo, legati ad un eccessivo carico di lavoro (Dwyer & Ganster, 1991) o a un elevato “costo emotivo” della mansione (Bakker, Demerouti, & Schaufeli, 2003b), l’assenteismo può essere utilizzato dal dipendente come meccanismo di difesa per fronteggiare l’eccessivo stress lavorativo e non si configura, dunque, come una semplice reazione comportamentale all’insoddisfazione professionale (Johns, 1997). Tali casistiche rientrano nella nozione di assenteismo “involontario” essendo legate ad una potenziale condizione di burnout e all’incapacità di svolgere il proprio lavoro (Chadwick-Jones et al., 1982).
Per una lettura più chiara delle suddette dinamiche giunge in nostro soccorso il modello “job demands-resources o JD-R” la cui appropriatezza per l’analisi dell’assenteismo per malattia è stata già dimostrata in diversi studi. (vedi Schaufeli et al., 2009). Il modello JD-R, in sostanza, afferma che il benessere di un dipendente è correlato ad un’ampia gamma di caratteristiche del luogo di lavoro e dell’attività lavorativa, che possono essere classificate in due categorie:
1) job demands: gli aspetti fisici, psicologici, sociali od organizzativi di un lavoro che implicano uno sforzo mentale o fisico e determinano un costo fisiologico per il dipendente;
2) job resources: gli aspetti fisici, psicologici, sociali od organizzativi del lavoro che (a) sono funzionali al raggiungimento degli obiettivi di lavoro, (b) riducono i relativi costi fisiologici, o (c) stimolano la crescita e lo sviluppo del lavoratore;
Nel suo lavoro Schaufeli precisa che interpretando il fenomeno dell’assenteismo per malattia alla luce del modello JD-R è possibile spiegare l’intensità dell’assenteismo “volontario” legandolo alla dimensione motivazionale del dipendente e dunque alla carenza di job resources, mentre l’assenteismo ‘’involontario’’ sarebbe legato ad un eccesso di job demands. Inoltre, alcuni studi hanno mostrato che l’assenteismo “volontario” è correlato alla frequenza con la quale i dipendenti tendono ad assentarsi mentre l’assenteismo “involontario” è maggiormente correlato alla durata dei periodi di assenza. (Bakker, Demerouti, De Boer, et al., 2003).
Pertanto, la maggior frequenza con la quale un determinato gruppo di lavoratori tende ad assentarsi potrebbe segnalare una carenza di job resources per quel ruolo specifico.
Sarebbe interessante approfondire l’analisi dei dati raccolti da Federmeccanica per verificare se il differente tasso di assenteismo per malattia che si registra tra operai e impiegati/quadri è legato alla maggior frequenza delle loro assenze oppure alla maggior durata di quest’ultime. Nel primo caso l’azienda per promuovere la maggior presenza dei propri operatori dovrebbe agire sull’aspetto motivazionale, mentre nel secondo caso sarebbe opportuno verificare che non ci siano anomalie organizzative o gestionali che possono aver provocato l’eccessivo “stretch” dei propri dipendenti. Fin qui il ragionamento si è concentrato sulla differenza tra categorie professionali ma nulla vieta di applicare la medesima logica ogni qualvolta si registrino delle differenze comportamentali tra diversi gruppi di lavoratori rispetto al fenomeno dell’assenteismo per malattia.
Inoltre va considerato che, spesso, proprio nei ruoli caratterizzati da un “job demand” molto alto si riscontra un tasso di assenteismo più basso, poiché nonostante sia molto intenso il livello di stress psicofisico connesso al ruolo altrettanto forte è il grado di soddisfazione percepito dal lavoratore nello svolgimento delle proprie mansioni. Anche questo può aiutare nel rispondere, almeno in parte, al quesito iniziale spiegando perché a seconda della qualifica professionale possa variare il tasso di assenteismo per malattia.
Infatti, non di rado, le aziende definiscono dei percorsi di gestione del talento concentrando la maggior parte dei loro sforzi nel mondo impiegatizio e sottovalutando che anche il serbatoio psicologico, emotivo e motivazionale degli operai ha bisogno di essere “ricaricato”, al pari di quanto avviene per gli impiegati, assegnando a ciascun dipendente una corretta posizione organizzativa e offrendogli la possibilità di intraprendere un percorso professionale stimolante.
Dunque, è qui che le politiche di gestione delle risorse umane possono intervenire per promuovere un alto tasso di presenza tra i dipendenti incrementando le job resources connesse ad ogni ruolo professionale. In tal senso è utile rileggere il lavoro di Hackman e Oldham del 1976, “Motivation through the design of work: Test of a theory” nel quale gli autori offrono una panoramica delle diverse leve motivazionali che lo Human Resource Management può utilizzare nei confronti dei dipendenti, ovvero:
1) a livello organizzativo generale attraverso le politiche retributive, la promozione della mobilità verticale e/o orizzontale, la sicurezza del lavoro e la formazione professionale;
2) a livello dei rapporti interpersonali, promuovendo un rapporto positivo tra responsabili e collaboratori, favorendo il team building e costruendo un ambiente di lavoro armonioso e collaborativo;
3) a livello dell’organizzazione del lavoro, definendo con chiarezza ciascun ruolo professionale e coinvolgendo i lavoratori nel processo decisionale;
4) a livello delle specifiche attività lavorative, restituendo frequenti feedback sulle prestazioni del dipendente, stimolando lo sviluppo di ampio ventaglio di abilità, spiegando il valore e l’identità dei compiti svolti ed incentivando l’autonomia di ciascun dipendente;
Da ultimo va considerato che anche il welfare aziendale può essere di supporto per promuovere un alto tasso di presenza, soprattutto laddove venga utilizzato per favorire la mobilità e la salute del dipendente. Impiegare un minor sforzo nel raggiungere il luogo di lavoro potrebbe ridurre uno degli aspetti più “job demand” della vita professionale di molte persone. Inoltre, le iniziative in termini di welfare sanitario promuovono uno stato di salute dei dipendenti che contrasta non solo la quota di assenteismo per malattia legata al JD-R ma anche quella strettamente connessa alla morbilità del lavoratore
Prima di concludere, occorre fare una precisazione, ovvero, finora il fenomeno è stato analizzato nella sua dimensione “collettiva”, sia nell’analisi delle cause che nella definizione dei possibili rimedi. Tuttavia, l’incremento del tasso di assenteismo legato al comportamento poco virtuoso di un numero esiguo di lavoratori è un problema che va trattato separatamente rispetto a quello della promozione, a livello generale, di un alto tasso di presenza. L’azienda, infatti, di fronte ai “casi limite” può e deve intervenire laddove stia riscontrando un utilizzo indebito di permessi e congedi, ovviamente nel rispetto di quanto previsto dalla legge, dal contratto collettivo e attraverso la corretta applicazione del codice disciplinare. Si consideri inoltre che, al di là di ciò che concerne l’utilizzo fraudolento di permessi e congedi, è possibile che vi siano casi isolati di assenza cronica legati, a volte, all’insorgere di gravi patologie o al verificarsi di eventi che rendono la vita privata del lavoratore inconciliabile con l’attività lavorativa.
Pertanto, a meno che non siano “endemiche” tali casistiche si situano al di fuori del perimetro della presente analisi che, invece, ha l’obiettivo di comprendere quali prospettive ci sono per le politiche di gestione delle risorse umane nel promuovere un alto tasso di presenza tra i dipendenti. Pertanto, un’azienda che intende partire da una “base dati” corretta deve depurare il dato dell’assenteismo da quella percentuale legata ai casi limite sopra descritti ed attivarsi contestualmente per la loro gestione.
Marco De Filippis
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena
@mardefilippis