Secondo le ultime stime dell’Inail, in Italia le donne rappresentano il 41,6% degli occupati e sono interessate da circa un terzo degli infortuni denunciati dal totale della forza lavoro. Ciò significa che le donne proporzionalmente subiscono infortuni in percentuale minore rispetto agli uomini; percentuali che, peraltro, diminuiscono progressivamente al crescere della gravità degli incidenti.
Analizzando i dati riguardanti tutti i lavoratori a prescindere dal sesso, il 2013 ha registrato, rispetto al 2012, un calo infortunistico del 7,8%, che ha interessato sia i lavoratori (- 8,9%) sia, in minor misura, le lavoratrici (-5,6%). Tale andamento decrescente, oltre ad essere una conseguenza della crisi economica vista la riduzione dei posti di lavoro e delle ore lavorate (e quindi del tempo di esposizione al rischio), costituisce la cartina di tornasole della diversa incidenza infortunistica dei lavoratori, uomini e donne, in relazione agli ambiti occupazionali. Dalle risultanze Inail infatti emerge che i settori con il maggior tasso di infortuni (metallurgia e costruzioni) sono anche quelli a minore presenza di lavoratrici. Pertanto, si può affermare che la componente ‘crisi’ ha inciso in minor misura sul calo infortunistico femminile.
In dettaglio, secondo quanto attesta l’Inail, le donne denunciano il maggior numero di infortuni nelle attività dei servizi (l’84% contro il 45% degli uomini), mentre il 12% riguarda l’industria (contro il 46% degli uomini). Di conseguenza, tra i settori a maggiore incidenza infortunistica femminile, il primo posto spetta al lavoro domestico (88,2%), seguito da sanità, servizi sociali (73,1%) e l’industria – abbigliamento (72,3%).
Ancora, una particolarità del panorama infortunistico femminile riguarda la ‘modalità di evento’. Mentre gli infortuni che si verificano in occasione di lavoro riguardano prevalentemente i lavoratori di sesso maschile, quelli che avvengono in itinere coinvolgono di più le donne. Invero, tra le donne una denuncia di infortunio su sei riguarda proprio il tragitto casa-lavoro-casa, mentre tra gli uomini lo stesso rapporto si dilata ad una ogni dodici. Peraltro, la differenza di genere si allarga ulteriormente se si concentra l’analisi sui casi mortali: tra le lavoratrici, un decesso su due è legato al rischio strada, mentre tra i lavoratori solo un incidente mortale su cinque avviene in itinere.
Passando invece all’esame dell’andamento delle malattie professionali, in generale si rileva che dal 2009 le patologie in questione hanno registrato un aumento pari all’11,3%, in controtendenza quindi rispetto ai dati relativi agli infortuni. In particolare, a colpire i lavoratori di entrambi i sessi sono soprattutto le malattie osteo–articolari e muscolo–tendinee. È significativo il dato che tali patologie professionali riguardino quasi l’87% delle denunce femminili, contro il 63% di quelle maschili. Segno questo che non viene ancora attuata una valutazione dei rischi da tecnopatia che tenga nella giusta considerazione la differenza muscolo–scheletrica tra uomo e donna.
In buona sostanza, “essere uomo o essere donna” è importante dal punto di vista della salute e sicurezza sul lavoro poiché i fattori di rischio e l’approccio terapeutico ad una determinata patologia possono variare sensibilmente a seconda del sesso. L’idea di salute deve quindi integrarsi con l’idea delle diversità tra genere maschile e femminile, intese non solo come differenze biologiche, ma anche come diversa incidenza, esposizione e percezione dei rischi, nonché come diversità nei ruoli della vita sociale che inevitabilmente influiscono sulle condizioni e sulle scelte di lavoro.
Tale integrazione potrà dirsi definitivamente raggiunta solo quando non ci sarà più bisogno di aggiungere la parola ‘genere’ alla parola ‘salute’, perché l’una sarà già contenuta nell’altra.
ADAPT Junior Fellow
@elena_busiol