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Bollettino ADAPT 13 febbraio 2023, n. 6
Per quanto possa dirsi “consueta” tanto in dottrina che in giurisprudenza “l’affermazione […] secondo cui i contratti collettivi” post-corporativi “hanno di per sé un’efficacia limitata agli iscritti […] in quanto atti di diritto privato” (M. Pedrazzoli, Qualificazioni dell’autonomia collettiva e procedimento applicativo del giudice, in LD, 1990, n. 3, pp. 355-406, spec. p. 358), in ragione della mancata attuazione dell’art. 39, commi 2, 3 e 4 Cost., è altrettanto diffusa l’opinione in base alla quale “l’applicazione del contratto collettivo” a tutti i lavoratori di una data impresa discende “dalla decisione unilaterale del datore di lavoro” (M. Rusciano, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, 1984, p. 56). Questa dinamica, però, non può essere ricondotta sul piano giuridico ad un diritto del datore di lavoro di scegliere quale contratto applicare solo sulla base della “propria convenienza” (rectius, gli interessi propri dell’impresa, primo tra tutti il profitto), come è stato ricordato di recente (cfr. Trib. Roma, 18 gennaio 2017, n. 370) e rispetto alla quale il lavoratore avrebbe il solo margine di contestare eventualmente la mancata sufficienza e proporzionalità della retribuzione in base al lavoro effettivamente prestato, secondo il noto principio sancito dall’art. 36 Cost. A nostro avviso, si tratta di un malinteso. Rispetto a questo tema, avvertiamo dunque la necessità di offrire qualche riflessione.
Precisamente, quando si dice che sia il datore di lavoro a “scegliere” il contratto collettivo da applicare ai rapporti di lavoro bisognerebbe fare comune riferimento a questa sua prerogativa non in termini di vero e proprio diritto ma “perché di norma è questi che, per la nota posizione di forza contrattuale, assume la decisione relativa al se applicare un contratto collettivo, e nel caso quale applicare” (così, da ultimo, G. Proia, Il contratto collettivo tra libertà di scelta e standard minimi di trattamento, in MGL, 2020, n. 4, pp. 965-988, spec. pp. 965-966). Ciò non toglie, tuttavia, che “tale decisione può essere anche frutto di una genuina contrattazione individuale o di una specifica richiesta del lavoratore, quando questi sia in condizioni di poter esercitare un effettivo potere negoziale” (G. Proia, op. cit., p. 966). In altri termini, non si può escludere che in fase di sottoscrizione del contratto individuale di lavoro, sia il lavoratore a condizionare l’individuazione e l’applicazione del contratto collettivo. Come non si può escludere che in fase di negoziazione, il lavoratore si rifiuti di sottoscrivere il contratto individuale di lavoro perché sottoposto alla regolamentazione dettata da un contratto collettivo non sottoscritto da un’organizzazione sindacale alla quale egli aderisce: in altri termini, anche il diritto al dissenso del lavoratore può condizionare l’applicazione del contratto collettivo (sul punto, si rinvia a P. Pizzuti, Contratto aziendale e dissenso individuale, in DRI, 2019, n. 2, pp. 567-591, spec. p. 577, il quale, nel ripercorrere le posizioni della giurisprudenza in merito, evidenzia che “la condizione necessaria per esercitare il dissenso” risiede nel fatto “che il lavoratore non sia iscritto al sindacato stipulante o che, se iscritto, ne sia precedentemente uscito, poiché il dissenso manifestato dal soggetto che rimane nell’associazione non [è] idoneo ad evitare che il contratto sia efficace anche nei suoi confronti”).
In questo ordine di idee, allora, sarebbe utile tenere sempre a mente un importante quanto mai trascurato passaggio di una “celebre” sentenza della Corte di Cassazione (Cass. Civ. Sez. Un. 26 marzo 1997, n. 2665) che, nello stabilire che i precetti dell’art. 2070 cod. civ. non avrebbero potuto trovare spazi di operatività nell’ambito della contrattazione collettiva post-corporativa, evidenzia anche che «dopo la soppressione dell’ordinamento corporativo i contratti collettivi sono sottoposti alle regole civilistiche dell’autonomia privata, ossia che possono avere efficacia soltanto in volentes», cioè in quanto voluta da entrambe le parti del contratto individuale di lavoro che decidono di richiamare la fonte collettiva nel testo; vuoi, per una proposta (fatta dal datore di lavoro) tacitamente accettata (dal lavoratore che non esprime dissenso); vuoi per un comune accordo delle parti. In questa prospettiva, la manualistica autorevole di questa disciplina riconduce l’applicazione del contratto collettivo ad una comune scelta delle parti piuttosto che solo ad una “scelta unilaterale” del datore di lavoro (cfr. G. Giugni, Diritto sindacale, Cacucci, 2006, p. 141). È dunque necessario un “consenso bilaterale” che esprima la volontà di entrambe le parti del rapporto individuale di lavoro di applicare un determinato contratto collettivo (A. Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro, vol. I, Il diritto sindacale, Cedam, 2019, p. 179), con la conseguenza che deve escludersi “l’esistenza non solo di un diritto dei lavoratori a vedersi applicato un qualsiasi contratto collettivo, ma, a maggior ragione” anche “un diritto dei lavoratori a vedersi applicato esclusivamente il contratto collettivo che fosse stato stipulato dal sindacato al quale siano iscritti” se il datore di lavoro decide di non aderire alle contrapposte associazioni datoriali stipulanti il contratto collettivo o di non rinviare espressamente a suddetta fonte (M. Persiani, Diritto sindacale, Cedam, 2016, pp. 83-84).
A riportare l’attenzione su questa questione, del resto, è la recente sentenza del Tribunale di Bologna del 12 gennaio 2023, che si estende per ben 24 pagine e si articola in 6 paragrafi, ognuno dedicato all’analisi delle questioni sollevate dalle parti in causa. Non è certamente questa la sede per ripercorrere e commentare l’iter argomentativo del giudice rispetto ai fatti di giudizio: per gli interessati e gli appassionati del “caso rider”, il testo della sentenza è liberamente consultabile nel Bollettino ADAPT di oggi (cfr. testo della sentenza) e ripropone, in gran parte, argomentazioni già note agli addetti e conformi a diversi precedenti giurisprudenziali in materia (primo tra tutti, Trib. Firenze 24 novembre 2021, n. 781). L’aspetto sul quale, invece, vogliamo volgere lo sguardo, come già accennato, riguarda proprio la libertà di scelta del contratto collettivo da parte del datore di lavoro o del committente (considerate le recenti tendenze della contrattazione ad estendersi anche nell’ambito del lavoro autonomo-parasubordinato), in particolare quando questa “scelta” deve fare i conti non solo con (a) il diritto al dissenso che può esprimere il lavoratore ma anche con (b) determinati vincoli previsti dal quadro normativo di riferimento.
Il giudizio in questione origina dalle contestazioni mosse da due organizzazioni sindacali (la Nidil-Cgil e la Filcams-Cgil), secondo la quale un’impresa del food delivery avrebbe posto in essere una serie di condotte antisindacali, tra le tante il richiamo all’applicazione di un accordo collettivo che, se non accettato dal rider come fonte eteronoma al quale subordinare il contratto individuale, avrebbe comportato l’impossibilità di proseguire il rapporto di lavoro e dunque la sua immediata cessazione. Nel caso di specie, si tratta del discusso accordo collettivo «per la disciplina dell’attività di consegna di beni per conto altrui, svolta da lavoratori autonomi, c.d. rider» sottoscritto dalle organizzazioni sindacali Assodelivery e Ugl-Rider il 15 settembre 2020. L’impresa ha difeso la legittimità della sua condotta sostenendo che l’applicazione dell’accordo collettivo discendeva dalla sua iscrizione all’associazione datoriale stipulante, ovvero Assodelivery, ad oggi l’unica organizzazione sindacale dei datori di lavoro che rappresenta le imprese del delivery. Ad avviso del Tribunale di Bologna, invece, il fatto che il datore di lavoro sia iscritto ad una determinata associazione datoriale «non comporta, per una sorta di automatismo, la esclusiva applicazione dei contratti collettivi stipulati dalla organizzazione sindacale» alla quale abbia deciso di aderire; al contrario, questo aspetto deve fare i conti con due limiti.
Anzitutto, è necessario che il datore di lavoro consideri la «volontà individuale del lavoratore» il quale può «dissentire dall’applicazione di quella disciplina» se la ritiene «peggiorativa di altra e diversa disciplina che potrebbe essere ritenuta applicabile nella stessa azienda» o quando lo stesso lavoratore aderisce ad una organizzazione sindacale «diversa da quella che ha stipulato l’accordo» perché dissenziente rispetto al contenuto e ai patti raggiunti (p. 23 della sentenza). In sintesi, dunque, l’esercizio di questo dissenso è legittimo e non può comportare l’interruzione del rapporto di lavoro, pena l’utilizzo illegittimo del recesso immeditato perché impiegato come «strumento di coazione della volontà del rider per indurlo» all’accettazione di determinate condizioni negoziali (p. 22 della sentenza).
Inoltre, è necessario che il datore di lavoro si faccia carico di verificare o di dimostrare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali sottoscriventi il contratto collettivo applicato, laddove la norma di legge preveda che la fonte collettiva debba essere in possesso di tale requisito. Sotto questo profilo, infatti, il Tribunale osserva che la condotta tenuta dal datore di lavoro non poteva ritenersi legittima anche in ragione della scarsa rappresentatività dell’organizzazione sindacale Ugl-Rider sottoscrivente l’accordo collettivo invocato che, per espressa previsione contenuta nel testo, era stato negoziato ai sensi dell’art. 2, comma 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, nonché ai sensi dell’art. 47-quater del medesimo decreto. Queste disposizioni prevedono che l’accordo collettivo al quale è consentito interagire con il precetto di legge, modificandolo e/o integrandolo, deve essere sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria e sul piano nazionale. Difettando di un tale requisito l’organizzazione sindacale dei lavoratori, l’accordo collettivo non poteva produrre gli effetti previsti dalle norme di legge in esso richiamate (ovvero, gli artt. 2, comma 2 e 47-quater del d.lgs. n. 81 del 2015). In altri termini, l’impresa avrebbe “scelto” un «CCNL inidoneo a dettare validamente una disciplina prevalente rispetto a quella legale» (p. 21 della sentenza).
Alla luce di quanto detto, possiamo agevolmente evidenziare che quel principio di diritto che tutela la libertà delle parti del contratto individuale di individuare liberamente il contratto collettivo da applicare al rapporto che sia più confacente alle proprie rispettive esigenze, arretra al cospetto di una norma di legge che in alcuni casi “impone”, in altri “promuove”, di individuare un contratto collettivo sottoscritto da soggetti dotati di un certo grado di rappresentatività. Sennonché, per quanto chiare e persuasive possano sembrare le argomentazioni adottate dal giudice bolognese, resta però un punto controverso per le parti del rapporto di lavoro che, di fronte al precetto di legge che richiede di individuare quel contratto collettivo sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, potrebbero incontrare non poche difficoltà nell’individuare la fonte collettiva, giacché è ancora estremamente discussa l’interpretazione (e la relativa applicazione) del criterio della maggiore rappresentatività comparata.
In linea con una consolidata giurisprudenza in materia (sul punto si veda G. Piglialarmi, Gli orientamenti giurisprudenziali in materia di rappresentatività sindacale. Criteri interpretativi e casistiche, in I. Armaroli (a cura di), Contro il dumping contrattuale, una legge sulla rappresentanza? Spunti per il dibattito, Bollettino Speciale ADAPT, 23 ottobre 2019, n. 1), il Tribunale di Bologna valuta la maggiore rappresentatività dell’organizzazione sindacale dei lavoratori Ugl-Rider rispetto a quella detenuta dalle organizzazioni sindacali ricorrenti (Nidil-Cgil e Filcams-Cgil) – che pure rappresentano i lavoratori della categoria – comparando diversi indici quali il numero di iscritti, la sottoscrizione dei contratti collettivi, l’attività di autotutela collettiva e di assistenza individuale ai singoli lavoratori di settore (cfr. p. 17 della sentenza). Questo perché, come è noto, nell’ordinamento non vige una legge che definisca cosa sia e come si misuri la rappresentatività delle organizzazioni sindacali, avendo contribuito la giurisprudenza a colmare questo vuoto normativo. A questa comparazione, dalla quale l’Ugl-Rider ne è uscita “soccombente”, il giudice aggiunge anche una serie di considerazioni attorno alle modalità con le quali è stato negoziato e sottoscritto l’accordo collettivo con Assodelivery (quali, una trattativa sindacale non pubblicizzata; il mancato confronto tra il sindacato Ugl-Rider e i riders circa il contento dell’accordo che ha negoziato con Assodelivery; l’assenza della promozione di vertenze collettive promosse dall’Ugl-Rider in favore dei riders; il contenuto del contratto quale mera riproposizione delle tutele minime disposte dalla legge e quindi l’assenza di un’effettiva capacità del sindacato di negoziare tutele ulteriori), che contribuirebbero, a suo avviso, a confermare non solo la carenza di rappresentatività dell’organizzazione sindacale ma addirittura la sua natura di “sindacato di comodo” o “sindacato giallo”.
Rispetto a queste argomentazioni, anzitutto va rilevato che la scelta di conferire alle modalità di sottoscrizione dell’accordo collettivo un valore indicativo per confermare o, viceversa, negare la fattispecie dell’art. 17 St. Lav., pare poco convincente. Come altrove osservato, l’eccessiva esasperazione di questo criterio (l’organizzazione della trattativa e la sua pubblicità, nonché il sistematico ricorso ad una vertenza) potrebbe condurre la giurisprudenza a negare la legittimità giuridica a quei sistemi di contrattazione collettiva partecipati da organizzazioni sindacali che sarebbero ritenuti “di comodo” solo perché non adottano una strategic litigation di tipo conflittuale e in determinate sedi (ad esempio, il Ministero del Lavoro) piuttosto che in altre (sul punto si rinvia a G. Piglialarmi, Dal contratto alla contrattazione: la “genuinità” di un sistema di relazioni industriali. Spunti a margine di una recente sentenza, in MGL, 2022, n. 1, pp. 241-255).
Relativamente alla questione della rappresentatività comparata, invece, si potrebbe concludere che il Tribunale di Bologna ha prediletto una interpretazione “aritmetica” del criterio, comparando in termini fattuali gli indici che da tempo sono considerati degli indicatori affidabili. Tuttavia, questa prospettiva non è pacificamente accolta in dottrina, tant’è che non mancano opinioni dissenzienti le quali prediligono una lettura, per così dire, “di sistema” del criterio. In altri termini, per sondare il grado di rappresentatività, non si dovrebbe procedere con la comparazione tra le singole organizzazioni ma valutare le coalizioni sindacali contrapposte che, nel loro insieme, danno origine ad un sistema contrattuale per una determinata categoria merceologica. A ben vedere, infatti, per quanto la Ugl-Rider possa risultare meno rappresentativa delle altre organizzazioni sindacali che pure dichiarano di rappresentare i riders, Assodelivery è tuttavia l’unica organizzazione che raccoglie le adesioni, in termini di rappresentanza degli interessi collettivi, delle imprese del food delivery (a quanto consta, Deliveroo, FoodToGo, Glovo, SocialFood e Uber Eats). Elemento questo che è totalmente assente nelle associazioni datoriali con le quali Nidil-Cgil e Filcams-Cgil di frequente negoziano i contratti collettivi.
Resta, dunque, complesso e difficile in termini fattuali “avviare quella comparazione tra sistemi di contrattazione collettiva incidenti sullo stesso settore di cui parlava Massimo D’Antona. Per il semplice fatto che UGL sarà anche un attore sindacale meno consistente e rilevante di CGIL, CISL, UIL, cosa di cui nessuno dubita, ma questo è oggi l’unico contratto collettivo che insiste sulla categoria dei rider (così, in termini di categoria, l’ha espressamente battezzata, forse incautamente e con un classico autogol, lo stesso legislatore nell’articolo 47-quater del d.lgs. n. 81 del 2015 che peraltro parla di maggiore rappresentatività comparata dei sindacati e però anche delle associazioni datoriali), là dove quello della logistica (per quanto normi la materia sulla carta) non è sottoscritto lato datoriale da alcun soggetto di rappresentanza delle imprese di food delivery” (M. Tiraboschi, ll CCNL Assodelivery-UGL Rider: le ragioni della contesa politico-sindacale e le (distinte) problematiche giuridiche che questo accordo solleva, in Bollettino ADAPT, 28 settembre 2020, n. 35).
L’interpretazione aritmetica del criterio, quindi, potrebbe condurre talvolta a degli esiti abbastanza paradossali, come nel caso di specie e non solo. Si pensi, a titolo di esempio, a tutti quei casi «in cui i sindacati di categoria aderenti a Cgil, Cisl e Uil non riescano ad operare unitariamente e diano vita a diversi contratti collettivi» (G. Proia, op. cit., p. 986), come accaduto di recente nell’ambito del settore assistenziale e sociosanitario, che ha registrato la sottoscrizione di un CCNL da parte di Confcommercio-Salute e delle organizzazioni sindacali Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil (per un commento, cfr. R. Schiavo, Il nuovo CCNL del settore assistenziale e socio-sanitario di Confcommercio Salute, in Bollettino ADAPT 13 febbraio 2023, n. 6). Sarebbe concretamente possibile immaginare che questo CCNL possa dirsi sottoscritto da organizzazioni sindacali meno rappresentative rispetto ad altri CCNL (quali il CCNL Aris-Aiop o il CCNL Agidae) che pure insistono su un analogo campo di applicazione? Eppure, la compagine sindacale è la medesima – salvo i dovuti dissensi – e le organizzazioni datoriali fanno capo a confederazioni la cui rappresentatività non è concretamente messa in discussione. Del resto, a sgomberare il campo da ogni dubbio sovviene proprio la posizione della organizzazione sindacale che non ha voluto, sino ad oggi, sottoscrivere il CCNL in questione. La Filcams-Cgil, infatti, ha tenuto a precisare (cfr. comunicato stampa della Filcams-Cgil) che il dissenso sindacale non è fondato sulla rappresentatività delle organizzazioni sottoscriventi o sulle differenze salariali che nel caso di specie non ci sono in quanto il CCNL non si discosta dagli standard di settore, quanto sul fatto che tale contratto si aggiunge a quelli già esistenti e contribuirebbe ad alimentare il numero dei contratti in un periodo storico in cui sarebbe necessario, invece, riuscire a diminuirli e fare chiarezza.
Insomma, la contestazione verterebbe su un problema tutto interno alle dinamiche politiche e di strategia delle organizzazioni sindacali che non può avere alcun riflesso giuridico e che di certo non priva il CCNL Confcommercio Salute della possibilità di interagire con il precetto di legge tutte le volte in cui questo “dialogo” viene governato dal criterio della maggiore rappresentatività comparata. Il che comporta, in termini pratici, che il CCNL Confcommercio-Salute in questione è certamente idoneo, a titolo di esempio, a determinare le retribuzioni per stabilire l’ammontare dei contributi da versare all’INPS (cfr. art. 1, comma 1 del decreto-legge n. 338 del 1989), come è idoneo a interagire con tutti i rinvii che il d.lgs. n. 81 del 2015 dispone nei confronti della contrattazione collettiva (cfr. art. 51 del d.lgs. n. 81 del 2015). Questo perché, a ben vedere, il criterio della rappresentatività comparata ha come obiettivo non tanto quello di individuare un solo contratto collettivo per categoria sottoscritto da più organizzazioni – quindi, mirando a raggiungere l’unicità della fonte, che peraltro porrebbe non pochi problemi rispetto al principio di libertà sindacale cui all’art. 39, comma 1 Cost. – quanto l’obiettivo di individuare quella fonte collettiva che sia presumibilmente capace di realizzare «assetti degli interessi collettivi più efficienti, ampi e stabili» (M. D’Antona, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi, in DLRI, 1998, n. 80, p. 674).
Giovanni Piglialarmi
Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia