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Bollettino ADAPT 3 maggio 2021, n. 17
In pochi lo hanno ricordato ma nella versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza inviata alla Commissione europea non vi è più traccia dell’introduzione del salario minimo legale in Italia. Si tratta di un cambio di passo non da poco che segna sia una distanza tra il testo entrato in Consiglio dei Ministri e quello che ne è uscito sia, soprattutto, rispetto ad un tema che è stato al centro dei desiderata di larga parte della maggioranza che sostiene il governo attuale.
Sono infatti depositate in Parlamento diverse proposte di legge a firma sia del Partito Democratico che del Movimento 5 Stelle e più volte negli ultimi anni ci si è avvicinati alla sua approvazione. In particolare negli scorsi mesi è stata una direttiva europea a rimettere al centro il tema facendo immaginare una accelerazione a riguardo. Tutto questo rende ancor più curioso il passo indietro che potrebbe essere determinato sia dalla volontà politica di alcuni dei partiti della maggioranza sia, più probabilmente, della sostanziale contrarietà delle parti sociali italiane, sia sindacali che datoriali.
La volontà, più volte espressa da Mario Draghi, di loro coinvolgimento nel processo di definizione e attuazione dell’utilizzo dei fondi comunitari del Next Generation EU potrebbe infatti spiegare la scelta del governo, suggerita proprio dalle parti sociali. Le ragioni della contrarietà sono note e vedono principalmente nell’alto livello di copertura della contrattazione collettiva in Italia un motivo sufficiente a non ritenere utile l’introduzione del salario minimo. Anzi, la sua introduzione potrebbe indebolire il sistema stesso delle relazioni industriali. Infatti a fronte di una legge nazionale che governa i salari, uno dei principali istituti governati dai contratti collettivi nazionali di lavoro, molte imprese potrebbero pensare di essere in regola con l’aspetto più importante e non applicare più i contratti. Contratti che però normano numerose altre tutele dei lavoratori. Il riferimento va dalla formazione al welfare, passando per lavoro agile e la flessibilità oraria, solo per citarne alcuni. Una scelta quindi che sembra porre al centro le ragioni, peraltro condivisibili, degli attori delle relazioni industriali che ora però si trovano, più o meno consapevolmente, di fronte ad una sfida intorno alla quale si gioca il loro futuro.
Se infatti a livello territoriale e aziendale non sono pochi gli esempi di innovazione che sono stati possibili, anche negli scorsi mesi, grazie al ruolo attivo di sindacati e imprese attraverso numerosi accordi e contratti, a livello nazionale la situazione sembra essere in stallo. Da tempo è sotto gli occhi di tutti il continuo proliferare di accordi collettivi sottoscritti da soggetti non rappresentativi (siano essi associazioni di imprese creati ad hoc o sindacati “gialli”) nati con il chiaro obiettivo di ridurre il costo del lavoro e quindi i salari, insieme ad altre tutele. Un nodo critico che porta i salari reali ad essere più bassi di quelli che un salario minimo garantirebbe, salario minimo però che molto probabilmente non sarebbe rispettato da chi già oggi ha costruito un sistema parallelo proprio allo scopo di pagare cifre inferiori ai contratti nazionali rappresentativi. Allo stesso tempo è possibile osservare, tristemente, come i c.d. contratti pirata siano spesso considerati, nelle zone più economicamente depresse del Paese, una alternativa al lavoro irregolare. Occorrono quindi soluzioni diverse ed è positivo che le parti sociali rivendichino il loro ruolo in questo, senza lasciare che sia una norma statale a occuparsene. La pietra tombale (al momento) sul salario minimo porta con sé anche quella sulla tanto annunciata legge sulla rappresentanza. Ossia una legge che regoli, attuando l’articolo 39 della Costituzione, l’azione delle parti sociali e quindi l’esercizio della rappresentanza.
Anche il venire meno di questo rischio pone sindacati e associazioni datoriali nella necessità di rinnovare gli accordi confederali che regolano il funzionamento della rappresentanza individuando strade che consentano di risolvere i problemi che la contrattazione pirata pone a moltissimi lavoratori e lavoratrici, soprattutto dei settori più deboli. Ma allo stesso tempo rilanciare quel raccordo tra i diversi livelli di contrattazione che, come recentemente osservato nell’ultimo Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva, non si è mai pienamente realizzato. Difficilmente ci saranno altre possibilità in futuro e la possibilità che il salario minimo si riaffacci è sempre dietro l’angolo.
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
*pubblicato anche su Domani, 27 aprile 2021