Accanto all’indisponibilità del tipo negoziale, il divieto di dissociazione tra titolarità del rapporto di lavoro e titolarità dell’organizzazione produttiva costituirebbe un principio cardine del nostro ordinamento, ravvisando nella natura binaria delle parti negoziali – lavoratore e datore di lavoro che beneficia della prestazione – un elemento strutturale inderogabile della fattispecie lavoristica. A prescindere dalla condivisibilità di tale impostazione, è indubbio che le esigenze di maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro sviluppatesi a partire dagli anni ’60, nel segnare il passaggio dall’integrale realizzazione del processo produttivo all’interno di un’unica realtà imprenditoriale all’alienazione di alcune fasi di esso (c.d. modularizzazione dell’impresa), abbiano sensibilmente mutato i rapporti tra imprese – volti all’integrazione negoziale e/o a forme di collaborazione/aggregazione di rete – mettendo in crisi tale equazione.
Le possibili declinazioni, di seguito illustrate, del regime della solidarietà negli appalti e nelle reti di impresa, al netto delle difficoltà ermeneutiche originate da una normativa in evoluzione e/o non sempre univoca e delle differenti elaborazioni formatesi sul punto, delineano i confini di quella che, a ragione, può essere considerata la maggiore difficoltà del diritto del lavoro contemporaneo: la ponderata regolazione di esigenze tra loro divergenti mediante strumenti di volta in volta ritenuti più idonei allo scopo. Il contributo degli interpreti, quindi, che nel prosieguo verrà fornito, non può che consistere nell’ausilio offerto al legislatore, anche solo in fase interpretativa, affinché la pur approfondita riflessione sugli strumenti da adottare non distolga l’attenzione dall’obiettivo da perseguire.
La dissociazione tra la titolarità formale e sostanziale del rapporto ed i rimedi normativi
I mutamenti nelle relazioni tra imprese, erodendo la base biunivoca nel rapporto tra lavoratore e datore di lavoro, hanno imposto la presenza quantomeno di un terzo soggetto, estraneo a detto rapporto, che trova differenti tipologie di disciplina negli ordinamenti giuridici: questi ultimi, infatti, distinti i fenomeni di esternalizzazione sani da quelli con finalità elusive della normativa, cercano di bilanciare, nell’ambito dei primi, le esigenze produttive con le tutele dei lavoratori coinvolti. Nel merito, quindi, sussistono sistemi normativi (Francia, Israele, Giappone) che imputano all’effettivo fruitore della prestazione la titolarità del rapporto di lavoro nel caso di appalto illecito, ovvero legislatori (Polonia, Spagna) che ricorrono alla responsabilità solidale per i soli trattamenti retributivi e taluni anche per quelli contributivi (Italia, Cile) dei lavoratori, laddove altri (USA ed Australia) si avvalgono del regime della codatorialità all’interno di un contratto di rete di imprese; pochi, infine, sono gli ordinamenti (Messico ed Italia, ma solo nelle ipotesi di distacco per l’esecuzione di prestazioni transnazionali di servizi) che tuttora impongono al committente l’obbligo della parità di trattamento dei dipendenti dell’appaltatore rispetto ai propri lavoratori, e davvero esigui quelli che onerano il committente di informare le rappresentanze sindacali aziendali sulla natura e caratteristiche del processo di esternalizzazione in programma (R. De Luca Tamajo, Diritto del lavoro e decentramento produttivo in una prospettiva comparata: scenari e strumenti, in RIDL, 2007, 1, 3 ss.).
L’adesione ad un rimedio piuttosto che ad un altro ha dato conto del differente approccio accolto dall’ordinamento di riferimento, di volta in volta consistente in posizioni di persistente sospetto e chiusura verso le vicende di integrazione/collaborazione negoziale tra imprese – considerate vettori di intenti frodatori – ovvero in atteggiamenti pragmatici volti alla disciplina del fenomeno in parola tramite la tutela dei lavoratori coinvolti. Nel nostro ordinamento, la regolazione de qua ha provato a raggiungere il punto di equilibrio tra l’offerta di strumenti giuridici flessibili richiesti dalle imprese e la salvaguardia delle ragioni creditorie dei lavoratori tramite la responsabilità solidale, che ha conosciuto alterne vicende nel corso degli anni, meritando quindi una breve riflessione.
La responsabilità solidale negli appalti
L’art. 29, c. 2, d. lgs. n. 276/2003 prevede che, in caso di appalto di opere e/o servizi, il committente appaltatore/datore di lavoro sia obbligato in solido, unitamente agli eventuali subappaltatori nel caso di filiera contrattuale, per i trattamenti retributivi e contributivi previsti in favore dei lavoratori ivi occupati, entro il termine biennale decorrente dalla data di cessazione dell’appalto. Il vincolo solidale, esteso anche in favore dei lavoratori parasubordinati e con contratti di lavoro autonomo impegnati nell’esecuzione della prestazione, è derogabile, pur se per i soli profili retributivi, dalla contrattazione collettiva nazionale di settore dell’appaltatore – cfr. Ministero del lavoro, interpello del 17 aprile 2015, n. 9 – a condizione di prevedere metodi e procedure di controllo e verifica della regolarità degli appalti. Richiesto di onorare i debiti inadempiuti dal datore di lavoro, l’obbligato in solido, citato in giudizio unitamente al primo, può opporre il beneficio della preventiva escussione del patrimonio del debitore principale e/o degli eventuali subappaltatori.
L’attuale formulazione normativa è il frutto di una serie di modifiche che, piuttosto che concentrarsi sull’estensione delle tutele dei lavoratori impegnati nei fenomeni di outsourcing, ha approfittato dei ripetuti interventi per precisare l’àmbito oggettivo e soggettivo del vincolo solidale in parola, denotando un significativo arretramento nella salvaguardia delle ragioni creditorie dei prestatori di lavoro (da ultimo, D. Izzi, Appalti e responsabilità solidale, in Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, a cura di M. Aimo e D. Izzi, Utet, 2014, 62 ss.), ma soprattutto ponendo l’interrogativo se la responsabilità solidale costituisca tuttora lo strumento di regolazione delle ipotesi dissociative tra titolarità formale e sostanziale del rapporto di lavoro.
Un certo ‘indebolimento’ del regime solidale è infatti riscontrabile alla luce di considerazioni di ordine sistematico ed applicativo: con riferimento al primo aspetto, è indubbio che la derogabilità della solidarietà ad opera della contrattazione collettiva nazionale, la previsione del litisconsorzio necessario ed il beneficio della preventiva escussione abbiano mutato la funzione e la natura dell’obbligazione in solido. Quest’ultima, da paradigma di regolazione giuridica dei fenomeni di outsourcing complessivamente intesi a seguito dell’introduzione di un nuovo concetto di appalto e di datore di lavoro operato dal d. lgs. n. 276/2003, coinvolgendo maggiormente il committente nella tutela del lavoratore piuttosto che imputando la responsabilità sul beneficiario della prestazione (cfr. L. Corazza, La nuova nozione di appalto nel sistema delle tecniche di tutela del lavoratore, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” IT, 2009, n. 93), sembra aver subito una torsione funzionale, avendo le modifiche del 2012 e del 2013 privilegiato la garanzia delle ragioni creditorie degli enti previdenziali e derubricato il vincolo solidale in parola ad obbligazione di garanzia di natura sussidiaria.
Oltretutto, il mutato assetto socio-economico pare abbia reso improponibile l’impostazione del legislatore del 1960, il quale, preoccupato che la disintegrazione verticale dell’impresa costituisse l’occasione per ridurre le garanzie accordate ai lavoratori, ha disciplinato le esternalizzazioni imponendo la parità di trattamento normativo ed economico tra i lavoratori del committente e quelli dell’appaltatore e la solidarietà per i trattamenti retributivi e contributivi relativi ai lavoratori coinvolti negli appalti, legittimando, secondo alcuni autori, le sole esternalizzazioni “virtuose” volte all’efficienza produttiva piuttosto che ad un mero risparmio del costo del lavoro (per tutti, P. Alleva, La nuova disciplina degli appalti di lavoro, in Il lavoro tra progresso e mercificazione, a cura di G. Ghezzi. Commento critico al decreto legislativo n. 276/2003, Ediesse, 2004, 165 ss.). Peraltro, il ricorso alle esternalizzazioni motivate dalla mera esigenza di riduzione del costo del lavoro non appare vietato dalla medesima normativa europea, la quale, con riferimento alle prestazioni transnazionali di servizi, prima con la direttiva 96/71 e successivamente con la direttiva 2014/67 – non ancora recepita nel nostro ordinamento – ammette e disciplina un «quantum di dumping sociale tollerabile nell’ambito del mercato unico» (cfr. G. Orlandini, Il distacco transnazionale, in Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, a cura di M. Aimo e D. Izzi, cit., 640), autorizzando con l’atto normativo da ultimo citato i Paesi membri a prevedere, in alternativa alla responsabilità solidale per le tariffe minime salariali e/o contributive in favore dei lavoratori occupati, un sistema di due diligence.
La direzione imboccata a livello comunitario, quindi, è nel senso della derogabilità del regime della solidarietà, sia pure dietro un adeguato meccanismo di controllo ad opera del committente, lasciando intravedere come la responsabilità solidale possa non costituire più un irrinunciabile sistema di regolazione dei fenomeni dissociativi della figura datoriale. Viceversa, sotto il profilo della derogabilità dell’obbligazione in solido, la normativa nazionale oscilla tra tre differenti discipline: alla derogabilità del regime complessivo della responsabilità solidale adottabile, ai sensi dell’art. 8, l n. 148/2011, dalla c.d. contrattazione di prossimità, contrappone l’inderogabile responsabilità solidale nel trasporto merci, recentemente introdotta con la l. n. 190/2014, prevedendo a livello per così dire intermedio la parziale derogabilità sancita dall’art. 29, c. 2, della legge Biagi, generando una pericolosa moltiplicazione di tipologie normative che tradisce una debole visione di insieme.
Se l’impostazione del diritto positivo è lontana da un assetto uniforme, la dottrina segnala ancora sensibili distinzioni sulla flessibilità del modello solidale nella definizione dei rapporti negoziali tra imprese: da un lato, infatti, l’assetto binario datore di lavoro/lavoratore continua ad essere considerato la regola generale del rapporto di lavoro, con conseguente derubricazione della solidarietà a mera deroga al principio di diritto comune dell’efficacia soggettivamente limitata del contratto individuale, di cui all’art. 1372 c.c., e la non modificabilità del regime solidale (S. Ciucciovino, Il rapporto di lavoro nel mercato: la frattura del rapporto binario lavoratore/datore di lavoro, in L. Corazza, R. Romei, Diritto del lavoro in trasformazione, il Mulino, 2014, 159 ss.); dall’altro, un’originale proposta suggerisce la sottoscrizione di accordi di gruppo sindacali per diversamente modulare il regime della solidarietà. Infatti, traendo spunto dai test di Tort Law effettuati dalla giurisprudenza anglosassone per attribuire la responsabilità solidale dei committenti – definita in questo caso come vicarious liability – nel caso di danni arrecati dai collaboratori autonomi, c.d. independent contractors, l’attuale formulazione della responsabilità solidale, che sembra non sfuggire ad un’imputazione di tipo oggettivo, verrebbe sostituita da un sistema di responsabilità diretta gravante su ciascuna impresa della filiera, laddove la responsabilità solidale scatterebbe solo se il pregiudizio arrecato al lavoratore fosse addebitabile tanto al datore di lavoro formale, quanto al contegno dell’impresa, posta ai livelli più alti, che avesse avuto un ruolo nel pregiudizio in questione (G. Gamberini, Gli accordi di gruppo per derogare alla responsabilità solidale nelle esternalizzazioni, in Dall’impresa a rete alle reti d’impresa. Scelte organizzative e Diritto del Lavoro, a cura di M.T. Carinci, Giuffrè, 2015, 387-399).
In merito alle considerazioni di carattere applicativo che farebbero intravedere un declino del regime della solidarietà, occorre considerare come la prassi commerciale assista ad una pluralità di negozi conclusi per realizzare fenomeni di relazione e/o integrazione tra imprese, rispetto ai quali il regime de quo non è espressamente previsto ovvero non è applicabile sulla base di un’identità di funzione e/o struttura con il contratto d’appalto (cfr. I. Alvino, L’appalto e i suoi confini, in Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, a cura di M. Aimo e D. Izzi cit., 42 ss.), nei fatti determinando un vuoto di regolazione – e conseguente minore tutela dei lavoratori coinvolti nei processi di utilizzazione indiretta della loro prestazione lavorativa – che, a meno di non voler essere risolta con un’estensione della solidarietà ad un crescente numero di negozi stipulabili – scegliendo tuttavia quale obbligazione solidale, fra quelle presenti nel nostro ordinamento, debba diventare la disciplina generale – fa piuttosto pensare, come notato da recente dottrina, che l’appalto costituisca sempre più solo una delle forme di collaborazione tra imprese – e, probabilmente, nemmeno la più diffusa – derivandone che la responsabilità solidale di cui è onerato il committente costituisca in realtà una tecnica di tutela settoriale e residuale, ignorando il nostro ordinamento le ulteriori forme di collaborazione fra imprese in cui più evidente è il vantaggio che dalla prestazione lavorativa soggetti diversi dal datore di lavoro formale possono trarre: le reti di imprese, appunto (I. Alvino, Il lavoro nelle reti di imprese: profili giuridici, Giuffré, 2014, 50 ss.).
Secondo il riportato orientamento, infatti, l’art. 29 della legge Biagi non si limiterebbe alla definizione di uno schema contrattuale altrove già tipizzato dal codice civile – all’art. 1655, appunto – bensì conterrebbe gli elementi costitutivi dell’attività imprenditoriale, ovverosia l’organizzazione dei mezzi ed il rischio di impresa, fornendo quindi una definizione di imprenditore-datore di lavoro che fungerebbe da pendant, integrandola, rispetto all’omologa di lavoratore subordinato di cui all’art. 2094 c.c. Letto in quest’ottica, quindi, l’art. 29 fornirebbe il criterio legale per imputare un rapporto di lavoro nelle situazioni di interdipendenza organizzativa fra imprese.
La responsabilità solidale nelle reti di impresa
Le reti di impresa, introdotte con il d.l. n. 5/2009 integrato dalla successiva l. n. 99/2013, pur rappresentando ancora una “novità” all’interno del nostro ordinamento, si inquadrano anch’esse nella citata fattispecie di possibile dissociazione tra la titolarità formale e sostanziale del rapporto di lavoro.
L’istituto ha consentito – soprattutto attraverso la previsione della “codatorialità” nell’ambito del contratto di rete – l’introduzione di un nuovo modello organizzativo che consente di realizzare le peculiari necessità delle piccole e medie imprese, ossia la massimizzazione della propria competitività con contestuale riduzione dei costi, esigenze queste ultime non appieno perseguibili attraverso le più tradizionali forme aggregative (consorzi, gruppi di imprese ed altre associazioni temporanee). Ciò ha richiesto, conseguentemente, alcune evoluzioni della cultura giuslavoristica relativa al “fare impresa”.
Nonostante una sensibile diffusione nel Centro-Nord Italia (al primo marzo 2015 il numero delle reti d’impresa registrate dalle Camere di commercio italiane era di 2.012 per 10.099 imprese coinvolte), la normativa a riguardo è ancora priva della necessaria specificazione, posto che, a fronte della riconosciuta ampia possibilità di gestione condivisa del personale da parte delle imprese c.d. “retiste” – che possono definirne unilateralmente modalità e limiti all’interno del contratto di rete – non sono stati disciplinati gli eventuali strumenti di tutela dei lavoratori.
La genericità dell’attuale disciplina ha indotto la dottrina ad interrogarsi su molti aspetti e dinamiche connesse alla gestione del personale all’interno delle reti di imprese, soprattutto per quanto attiene al profilo della tutela dei dipendenti, in merito al quale lo strumento della responsabilità solidale delle imprese facenti parte della rete – con particolare riferimento a quelle che “di fatto” impiegano “promiscuamente” i dipendenti – ha ricevuto l’attenzione degli interpreti quale possibile misura di contemperamento tra la moltiplicazione della figura del datore di lavoro e la tutela (soprattutto ex post) dei lavoratori. I nodi interpretativi che gli studiosi hanno dovuto affrontare attengono, da un lato, alla natura della “codatorialità” e, dall’altro, ai contenuti del contratto di rete.
Rispetto al primo profilo, parte della dottrina ha individuato ipotesi di responsabilità solidale inderogabile partendo dall’assunto per cui la codatorialità ex art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 coinciderebbe con l’assunzione congiunta dei dipendenti all’interno della rete (espressamente richiamata ex art. 31, commi 3-bis e 3-ter, del d.lgs. n. 276/2003 con riferimento alle imprese agricole nei gruppi di imprese), alla quale il dettato normativo (art. 31, comma 3-quinquies, del d.lgs. n. 276/2003) ricollega, appunto, l’automatica responsabilità solidale per le «obbligazioni contrattuali, previdenziali e di legge che scaturiscono dal rapporto di lavoro» (per tutti, A. Perulli, Contratto di rete, distacco, codatorialità, assunzioni in agricoltura, in La riforma del mercato del lavoro, IV, Il nuovo diritto del lavoro, a cura di A. Perulli e L. Fiorillo, Giappichelli, 2014, 463). Sul punto, la recentissima circolare del Ministero del lavoro del 6 maggio 2015, n. 7671, riferendosi proprio all’ipotesi dell’assunzione congiunta espressamente prevista in caso di contratto di rete stipulato da aziende appartenenti al settore agricolo, ha ribadito l’automatica responsabilità solidale dei datori di lavoro per le obbligazioni previdenziali, contrattuali e di legge derivate dal rapporto di lavoro “congiunto” così instaurato. Ad opposta conclusione è giunto chi, anche basandosi sulla diversa terminologia utilizzata dal legislatore (“codatorialità” nell’art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 ed “assunzione congiunta” nel successivo art. 31), ha inteso la codatorialità esclusivamente come possibilità di esercizio congiunto o esteso da parte di più imprese del potere disciplinare, direttivo e di controllo nei confronti della totalità dei dipendenti (delle imprese aderenti al contratto di rete), senza che ciò determini la “moltiplicazione” del datore di lavoro in senso formale e, conseguentemente, l’estensione dei regimi di responsabilità datoriale (M. Biasi, Dal divieto di interposizione alla codatorialità: le trasformazioni dell’impresa e le risposte dell’ordinamento, in W.P. C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” IT, 2014, 28).
Il secondo piano interpretativo, invece, attiene alla forza regolatoria da riconoscere ai contratti di rete rispetto ai regimi di responsabilità applicabili al lato datoriale.
Un primo orientamento, partendo dall’individuazione di più datori di lavoro sostanziali – cioè di più imprese che esercitano sostanzialmente i poteri tipici del datore di lavoro e che, quindi, ne assumono la natura – ritiene sussistere una automatica responsabilità solidale delle imprese individuate sulla base delle regole di cui all’art. 1292 c.c., tanto sul piano della salute e sicurezza, quanto su quello dei crediti da lavoro (A. Perulli, op. cit., 452 e 459-460), senza che tale responsabilità possa, diversamente, trovare limitazione sulla base della regolamentazione disposta dalle retiste attraverso le regole di ingaggio dedotte all’interno del contratto di rete (D. Venturi, La disciplina del distacco e le nuove regole sulla codatorialità nelle reti di imprese, in Il lavoro riformato, a cura di M. Tiraboschi, Giuffré, 2013, 209 ss.).
Al contrario, altro orientamento considera che l’eventuale diversa regolamentazione dei profili di responsabilità delle retiste, di cui al contratto di rete, potrebbe validamente escludere la responsabilità solidale delle imprese aderenti (I. Alvino, op. cit., 179). Sul punto, il Ministero del lavoro, con la Circolare del 29 agosto 2013, n. 35, ha fornito un importante contributo – che spicca rispetto all’esiguità della disciplina ad oggi vigente – richiamando e legittimando il contratto di rete come fonte – anche derogatoria – dei regimi di responsabilità civile, amministrativa e penale, negando, inoltre, l’automatica solidarietà delle imprese della rete.
Tenuto conto delle considerazioni che precedono, anche nel caso delle reti di imprese è legittimo chiedersi se la responsabilità solidale risulti o meno irrinunciabile strumento di tutela dei dipendenti. Sul punto, proprio quanto espresso all’interno della circolare ministeriale da ultimo citata è probabile sintomo della volontà di proseguire nella definizione di una disciplina per le reti di imprese – costituite nell’ambito di imprese di piccole e medie dimensioni – che non presenti elementi di rigidità tali da avvilire gli obiettivi dell’istituto.
In ogni caso, occorre considerare che il riconoscimento di regimi di solidarietà passiva automatica ed inderogabile, nel caso della codatorialità ex art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 – che ad oggi pare propendere più verso una cogestione dei dipendenti piuttosto che verso la contitolarità dei rapporti di lavoro – potrebbe risultare un forte deterrente per le piccole imprese nella scelta di implementare la codatorialità all’interno della rete, posto che gran parte delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale sono, in tali contesti, già garantite dal notevole alleggerimento dei requisiti richiesti per la legittima applicazione del distacco. In considerazione del fatto che la disciplina risulta ancora in corso di definizione, sarebbe auspicabile l’individuazione di soluzioni alternative alla responsabilità solidale (ad es. quote da versare obbligatoriamente nel fondo comune a garanzia dei debiti da lavoro), stante la considerazione per cui l’applicazione automatica di quest’ultima determinerebbe per le piccole imprese un costo aleatorio e, a seconda dei casi, probabilmente anche eccessivamente oneroso da affrontare.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
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