La speranza che pure c'è

Vent’anni per tornare ai livelli occupazionali del 2007. È questa la drastica prognosi che il Fondo Monetario Internazionale ha consegnato all’Italia. Una realtà amara, che ci parla di una una generazione perduta e che però ci conferma semplicemente quanto in realtà già da tempo sapevamo. Sono i giovani – e ancor più i giovani del Mezzogiorno – i più colpiti da una crisi economico-finanziaria che oramai dura da otto anni. Non solo per il tasso di disoccupazione che è più che raddoppiato, passando dal 20 per cento del 2007 al 42 per cento dell’ultimo anno. Ma anche e soprattutto per la fiducia che i giovani devono avere in se stessi e nelle istituzioni e che è praticamente venuta meno, con oltre due milioni di under 29 inattivi e un vero e proprio esercito di espatriati in terre che ancora sanno concedere occasioni e con esse la speranza nel futuro. 
 
V’è invero chi discute della attendibilità della previsione del Fondo Monetario Internazionale. Eppure per i giovani sappiamo che è così, a partire da quanti ne ritroveremo nel nostro Paese tra vent’anni, in un contesto che, stando alle previsioni demografiche, ci consegnerà in poco tempo una Italia di gran lunga più vecchia e sfiduciata gravata come è da inefficienze storiche e da un peso della spesa previdenziale e sanitaria tra le più alte del mondo. Andiamo incontro a un severo innalzamento dell’età media della popolazione lavorativa che porterà ad ingessare ancor di più l’ingresso in un mercato del lavoro storicamente asfittico e frammentato come il nostro.  
 
Non si tratta insomma di svolgere ora l’ennesima riflessione tecnica su più o meno attendibili analisi economiche e risposte politiche che tardano a venire come abbiamo recentemente visto con Garanzia Giovani, il piano straordinario per l’occupazione giovanile che avrebbe dovuto rappresentate l’antipasto delle politiche annunciate col Jobs Act e che ancora non si vedono all’opera. 
 
Al contrario, da queste previsioni del Fondo Monetario Internazionale ci viene ora giustamente rinfacciata, e con gran forza, tutta la responsabilità che abbiamo verso i nostri ragazzi. Giovani traditi e delusi non solo dalla politica e dalle riforme mancate o parziali  ma, prima ancora, da un modello sociale e di sviluppo che sembra prescindere dalla persona, dalle sue esigenze materiali come dalla sue aspettative ideali e di proiezione verso il futuro.  Giovani a cui oggi viene chiesto, dalle famiglie e dalla società, di studiare e formarsi sempre di più, ma ai quali poi consegniamo un mercato del lavoro che per almeno due decenni ancora non li accoglierà. 
 
Riusciamo davvero a immaginare lo stato d’animo, la testa e le motivazioni di un giovane dopo anni e anni di inattività e speranze deluse? E’ a questo interrogativo che ci dobbiamo tutti dedicare perché, giuste o sbagliate che siano le previsioni del  Fondo Monetario Internazionale, siamo da troppo tempo di fronte a una  perdita di capitale umano e sociale incalcolabile. E non è solo e tanto un problema economico perché, come ci ricorda sempre Papa Francesco, il lavoro non è solo occupare del tempo o guadagnare dei soldi, ma è fonte primaria di dignità per la persona e per il senso di una vita orientata al futuro e alle relazioni con gli altri. 
 
Appare dunque poco utile attardarsi ancora sul dibattito stabili/precari alimentato nel nostro Paese dal superamento dell’articolo 18. Siamo ancora ai fondamentali perché senza lavoro questi sono discorsi secondari che a un giovane appaiono sterili se non un modo per sfuggire alla realtà delle cose e alle domande che ci pongono quando chiedono risposte per il loro futuro.
 
Come bene sanno gli educatori, più che alla stabilità del lavoro l’interesse di un giovane è essenzialmente diretto a capire quanto prima la propria vocazione e i propri talenti. Ma questo è impossibile se il mercato del lavoro alza muri e barriere e non concede occasioni. Lo stesso richiamo che ci arriva oggi dal Fondo Monetario Internazionale è una verità che spesso ci dimentichiamo: le riforme delle leggi del lavoro non portano con sé occupazione. L’unica modalità per creare lavoro è ritornare a crescere e per questo servono innovazione, fiducia, voglia di intraprendere, capacità di rischiare. Ma qui nascono ulteriori problemi. Molti dei lavori che la grande crisi ha portato via con sé non torneranno più. Otto anni hanno cambiato i modi di produrre, le tipologie di servizi, i bisogni dei consumatori e le tecnologie necessarie a soddisfarli. C’è quindi il serio rischio, e diversi dati sembrano dimostrarlo, che il nostro Paese crescerà (seppur lentamente) senza generare nuovi posti di lavoro. Per non parlare poi della qualità dei lavori che spesso le nuove tecnologie creano: lavori senza tutele minime e con salari che non consentono una autonomia economica.  
 
Una situazione senza speranza? Davvero fuggire all’estero, come fanno in molti dopo gli studi, è l’unica soluzione?  Una strada alternativa è invece tornare a scommettere proprio sui giovani che stiamo emarginando, dare loro una opportunità anche se il contesto non aiuta e la crisi ancora si fa sentire nella realtà di molti settori e imprese. Certo, non è facile assumere un giovane e insegnarli spesso da zero un lavoro. E tuttavia, va detto ai nostri imprenditori, sono solo i giovani che possono portare innovazione nelle loro aziende, utilizzando al meglio le nuove tecnologie e acquisendo rapidamente quelle competenze che un lavoratore di oggi non riesce più ad apprendere. I giovani hanno però bisogno di esempi e di maestri e le nostre aziende devono tornare a essere luogo di formazione e crescita della persona, come avviene in Germania grazie al radicamento dell’apprendistato e dell’alternanza scuola lavoro.
 
Spesso si cerca la soluzione più lontana dal problema. Al contrario quello della occupazione giovanile è un problema che, con i giusti input, può contenere al suo interno la soluzione.  Una riforma del lavoro, come quella in discussione, che vuole rilanciare il ruolo centrale della persone e vuole sviluppare un vero sistema di politiche per l’occupabilità della persona non può che guardare a chi in questo momento è allo stesso tempo l’anello debole della catena ma anche l’unica speranza per smentire sul campo le cupe previsioni del Fondo Monetario Internazionale. 
 
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
 
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* Pubblicato anche in Avvenire, 28 luglio 2015

La speranza che pure c'è
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