La spinta che le manager possono dare al lavoro femminile*

Interventi ADAPT, Mercato del lavoro

| di Marina Brollo

Bollettino ADAPT 7 aprile 2025, n. 14

Quest’anno, l’incontro di apertura di Top 100 è dedicato, non a caso, a “Le donne nel futuro delle imprese del Nord Est”. La posta in gioco è quella di trasformare una criticità del mercato del lavoro in un’opportunità di crescita della partecipazione femminile.

Il paradigma della questione del lavoro delle donne è ambivalente, tra opportunità e ostacoli (rinvio al recente rapporto Cnel-Istat). C’è un lato positivo e incoraggiante: prosegue la lunga marcia delle donne. Una sorta di rivoluzione che vede un numero crescente di donne affermarsi e realizzarsi nel lavoro sì da diventare il volto di imprese e istituzioni, come confermano le presenze sul palco dell’incontro organizzato da Nord Est Multimedia.

Ma la marcia è lenta (a rischio di inversione) e con un lato oscuro: dietro le quinte, permangono disparità e discriminazioni per una quota ampia e maggioritaria. Troppe donne rimangono, o diventano, inattive rispetto al lavoro produttivo (quasi 8 milioni). Dopo la nascita dei figli, le madri lavorano meno o lasciano l’impiego (vedi i dati dell’Ispettorato del lavoro). Anche per questo, le donne se occupate (poco più della metà) lo sono in larga misura in posizioni vulnerabili. Lavorano in occupazioni atipiche e temporanee (un terzo a tempo parziale, spesso involontario); schiacciate sui salari/redditi più bassi (se non insufficienti a garantire un’autonomia). E soprattutto con l’handicap di segregazioni di tipo orizzontale (nei settori più poveri e a bassa innovazione: agricoltura, alberghi ristorazione, servizi alle famiglie) e/o di tipo verticale (frenate, nel percorso verso posizioni di vertice, dal soffitto di cristallo e/o dal pavimento appiccicoso).

A conti fatti, i divari occupazionali di genere sono tutti a favore degli uomini. Rimaniamo tra i Paesi peggiori in Europa. Il recente aumento dell’occupazione non colma il divario che taglia fuori le donne, specie nell’età fertile.

È vero, c’è una differenza territoriale: le regioni del Nord Est riportano dati migliori rispetto a quelli medi italiani (specie per le laureate e per le madri), ma anche qui ci sono troppe differenze a sfavore delle donne. Differenze, ingiustificate e inefficienti, che confermano la vischiosità dei dati di partenza e la diffusa vulnerabilità lavorativa delle donne.

I dati del mercato del lavoro, se letti con occhiali di genere, parlano forte e chiaro: svelano che lo squilibrio deriva dalla divisione del tempo fra uomini e donne. E, a monte, da stereotipi culturali e sociali sui ruoli, secondo cui le donne dovrebbero essere sempre e solo l’angelo del focolare, tenute a spendere il proprio tempo in attività di cura o domestiche molto più degli uomini: in media, più di un’ora al giorno. Il potere sull’uso del tempo è, dunque, la matrice delle differenze di genere. Lo squilibrio è una sorta di effetto, strutturale e naturale, della differenza dei ruoli nella società e nella famiglia e si riflette sul futuro delle tutele del sistema di sicurezza sociale (vedi la fotografia scattata dall’Inps). I numeri dicono che la maggioranza meno fortunata rinuncia al lavoro per la famiglia.

Di conseguenza, impieghiamo male la parte del capitale umano relativa a una maggioranza qualificata: le donne sono oltre la metà della popolazione, sono quelle più istruite (quasi il 25% sono laureate, contro il 18% degli uomini), ma solo una minoranza riesce a crescere nel lavoro. Sprechiamo risorse, potenziali e preziose, per le imprese e la società, in una fase critica di diminuzione della popolazione in età lavorativa e di difficoltà di reperire lavoratori. Viceversa, la strategia di aumentare la partecipazione delle donne costituisce la principale possibilità di espansione della domanda di lavoro nel prossimo decennio (vedi il recente Rapporto Inapp).

Se così è, occorre fare passi avanti coraggiosi e differenti. Non solo per ragioni di giustizia e di equità, ma anche per motivi economici, di competitività. Dobbiamo trasformare l’inattività e la mala occupazione femminile in un’opportunità unica: agevolare l’entrata delle donne nel lavoro stabile e dignitoso, rendendo effettivo il loro diritto/dovere al lavoro previsto dall’art. 4 Cost.

Per realizzare la “grande convergenza tra uomini e donne” (auspicata da Claudia Goldin, premio Nobel per l’economia) dobbiamo ripensare il lavoro femminile e l’organizzazione del lavoro, guardando ai modelli dei Paesi nordici più virtuosi.

In tale direzione, è ora di sciogliere il complesso nodo della conciliazione dei tempi e dei ruoli lavorativi e familiari. E farlo con una consapevolezza di sistema: le politiche per il lavoro delle donne dipendono sia dalle politiche per la famiglia (a partire da nuove regole del gioco per essere genitori alla pari ai servizi di cura), sia dalle politiche culturali di eguaglianza e di pari opportunità.

Per chiudere il cerchio, imprenditrici e donne manager possono e devono fare un significativo passo avanti.

Spesso le donne che ricoprono ruoli apicali ritengono di effettuare le loro scelte, per un’assunzione o per una promozione, senza alcun condizionamento di genere. Sul punto, lancio loro un accorato appello: a riflettere se cambiare la cultura delle aziende e istituzioni e a considerarsi al fianco delle altre donne meno fortunate, facendo riscendere l’ascensore sociale per far salire anche loro. Una governance aziendale sensibile alle differenze tra uomini e donne nascoste negli stereotipi e nelle pratiche quotidiane, nonché consapevole della necessità di colmare il gap di genere potrebbe fare una grande differenza per aumentare la partecipazione femminile. Potrebbe essere un nuovo inizio di una battaglia per la crescita sostenibile dell’economia e del Paese.

Marina Brollo

Ordinaria di diritto del lavoro

Università degli Studi di Udine

X@MarinaBrollo

*Pubblicato anche su Focus ilNordEst.Economia, Il Messaggero Veneto, 1° aprile 2025, p. III