La riforma del mercato del lavoro arriva questa settimana al Senato per l’approvazione definitiva. Il dibattito si concentrerà ancora una volta sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè sulle norme che consentono ai giudici di imporre la riassunzione di un lavoratore licenziato. Ma non è più questo il problema centrale. Ciò di cui si dovrebbe discutere e che invece è stato messo in sordina è il fatto che la riforma si applicherà solo ai nuovi assunti.
Per i lavoratori che mantengono un contratto a tempo indeterminato continuerà a valere il vecchio articolo 18. Questo rischia di generare una nuova divisione del mercato del lavoro, con effetti che potrebbero cancellare i benefici della riforma.
La legge delega approvata dalla Camera stabilisce che i decreti delegati (che Matteo Renzi ha già pronti) delimitino chiaramente le possibilità di reintegro nel caso di licenziamenti per motivi disciplinari, l’aspetto più controverso della legge. Nella sostanza, tranne in casi estremi, i licenziamenti per motivi disciplinari non saranno appellabili, così come quelli adottati per motivi economici. D’ora in avanti, cioè per i nuovi contratti, l’articolo 18 viene in sostanza abolito.
Il fatto che l’abolizione riguardi solo i nuovi contratti crea due problemi. Innanzitutto, come si comporteranno i giudici di fronte a licenziamenti decisi da un datore di lavoro che vuole semplicemente sostituire un dipendente coperto dall’articolo 18 con un nuovo contratto privo di quella protezione?
Ma il rischio maggiore è il blocco della mobilità. Come ha osservato Marco Leonardi, uno degli studiosi più attenti del nostro mercato del lavoro, è improbabile che un lavoratore oggi tutelato dall’articolo 18 decida di spostarsi, firmando un nuovo contratto che invece non lo prevede. Alcuni lo faranno perché non temono il licenziamento, ma altrettanti non ne vorranno sapere.
In Italia ci sono 1,5 milioni di cambi di contratto volontari all’anno su un totale di 14,5 milioni di contratti a tempo indeterminato. Ciò significa che ogni anno un lavoratore su 10 lascia volontariamente il posto di lavoro per spostarsi in un’altra azienda. Anche considerando che i lavoratori di aziende con più di 15 dipendenti (ai quali si applica l’articolo 18) sono meno di un terzo del totale, con questa legge si rischia di frenare il turnover. E il turnover volontario dei lavoratori da un posto all’altro è l’olio dell’economia italiana dove il licenziamento individuale è relativamente raro e gran parte della riallocazione si fa volontariamente.
Il problema è tanto più grave oggi poiché la nostra possibilità di riguadagnare la competitività perduta (circa il 30% rispetto alla Germania negli ultimi 15 anni) passa non tanto da una riduzione dei salari, bensì dalla riallocazione della produzione da aziende scarsamente produttive (tipicamente imprese di servizi protette dalla concorrenza) verso imprese più efficienti, tipicamente quelle esposte alla concorrenza internazionale. ridanno di una norma che renderebbe questa riallocazione più difficile è gravissimo.
Il Senato ha ancora la possibilità di correggere questo errore. Nel testo originale proposto dal governo le nuove regole si applicavano a tutti, non solo ai nuovo assunti. Poi Renzi ha ceduto alle pressioni interne del suo partito. Se il Senato cambiasse questo comma della legge si renderebbe necessario un nuovo voto alla Camera, e tempi un pò più lunghi. Un piccolo prezzo rispetto al danno che l’attuale formulazione comporterebbe. Un’alternativa consisterebbe nell’usare la leva fiscale per favorire la mobilità volontaria dai vecchi ai nuovi contratti. Ma sarebbe una soluzione imperfetta e di dubbia efficacia. Insomma, pensiamoci bene prima di approvare, per la smania di fare in fretta, regole che potrebbero addirittura peggiorare il nostro mercato del lavoro.