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Bollettino speciale ADAPT 3 luglio 2024, n. 3
La scelta delle parole che caratterizzano la sostanza e plasmano forma del recente decreto legislativo n. 62/2024 permette di riflettere sull’ambizioso intento del legislatore: accompagnare anche nominativamente una nuova concezione della condizione di disabilità, a partire dall’intervento sui sistemi di valutazione e, più in generale, sui processi di presa in carico della persona con disabilità. Già nel titolo del decreto è possibile individuare le tracce di questa proposta che è culturale prima ancora che tecnica: concentrarsi sulla «Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato» implica individuare con precisione, definire ed elevare a regola le categorie attraverso cui si costruisce l’identità della persona con disabilità, alla quale, finalmente, viene riconosciuto un ruolo attivo e cosciente mediante la trasformazione dei modelli di valutazione e l’individuazione di profili professionali specificamente dedicati ai processi di integrazione sociale.
Non più handicap: da finezza linguistica a divieto sostanziale
L’art. 3 del d.lgs. 62/2024, emendando l’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 definisce la persona con disabilità come: «chi presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri, accertate all’esito della valutazione di base». A seguire, l’art. 4 scioglie il nodo del linguaggio politicamente corretto elevando quella che è stata spesso considerata una trascurabile (e, purtroppo, effettivamente trascurata) finezza terminologica, una sorta di snobismo intellettuale, a una scelta di significato e sostanza, addirittura politica: a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto la parola: «handicap», ovunque ricorra, è sostituita da: «condizione di disabilità». Allo stesso modo, le espressioni «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile» sono sostituite da: «persona con disabilità».
Dunque, seguendo l’ipotesi sostenuta dalle discipline che studiano il rapporto tra le parole e le categorie con cui si interpreta e, quindi, si costruisce la realtà, i porre un cambiamento dei termini con cui ci si riferisce alla disabilità è un salto di coscienza significativo della volontà di ripensare lo spazio che viene assegnato a questa condizione nei differenti contesti di vita. Sempre l’art. 4 impone che le parole: «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità» siano sostituite da: «con necessità di sostegno elevato o molto elevato»; mentre le parole: «disabile grave» siano sostituite da: «persona con necessità di sostegno intensivo». Questo ulteriore passaggio, da non ridurre a un mero aggiornamento del “dizionario della legislazione e della burocrazia”, testimonia la volontà di assegnare alla persona un ruolo attivo rispetto alla propria disabilità che, fino a questo momento, è stata largamente intesa come una limitazione totalizzante l’esperienza di vita della persona. Non è più accettabile riferirsi alla persona appiattendola su quello che è socialmente considerato un limite: “il disabile”. La natura e l’individualità di quella persona non può certo essere ridotta al grado autonomia che vive! Così come è giustamente diventata disdicevole l’enfatizzazione di caratteristiche fisiche nella individuazione di una persona (“quel ciccione”, “quella bionda” etc…), ancor più questo deve valere per ogni situazione connessa alla salute. In questa obsoleta prospettiva la disabilità satura l’identità dell’individuo, assegnandogli una connotazione prevalentemente passiva legata alle limitazioni che la disabilità potrebbe imporre alla piena partecipazione sociale. Il condizionale è d’obbligo poiché, come ci ricordano gli articoli successivi del decreto, la nuova concezione della disabilità fa riferimento a classificazioni internazionali che sottolineano con forza come la disabilità sia il prodotto di una interazione tra specificità dell’individuo e le condizioni del contesto sociale che possono limitare la realizzazione della persona. Si tratta dell’intuizione del modello sociale della disabilità, di matrice anglosassone, formalizzato negli anni Ottanta, che molto ha condizionato la produzione delli istituzioni sovranazionali su questa materia.
Accertare la presenza di menomazioni diventa riconoscere una condizione di vita: nuovi modelli interpretativi nella valutazione di base e multidimensionale
A decorrere dal 1° gennaio 2025 è introdotta la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute – International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF) come riferimento ai fini della valutazione di base. L’ICF, già molto noto in ambito scolastico, verrà applicata congiuntamente alla versione adottata in Italia della Classificazione internazionale delle malattie (ICD) dell’Organizzazione mondiale della sanità e di ogni altra eventuale scala di valutazione consolidata nella letteratura scientifica e nella pratica clinica.
La peculiarità dell’ICF è l’accertamento dello stato di salute (e non di malattia!) di una persona utilizzando tre dimensioni principali: il funzionamento, la disabilità (le cui componenti sono: funzioni corporee, strutture corporee, attività e partecipazione) e i fattori contestuali, (suddivisi in due componenti: fattori ambientali e personali). L’attenzione a tale articolata interazione tra i differenti ambiti permette di introdurre quale esito della fase valutativa il pieno riconoscimento della condizione di salute (e, quindi, anche di disabilità) entro le sue specifiche declinazioni. In altre parole, il processo di valutazione inaugurato dal d.lgs. abbandona una prospettiva clinica focalizzata sull’accertamento della presenza di menomazioni (fisiche e/o psichiche) in favore di un processo più complesso, di natura bio-psico-sociale, che situa il riconoscimento della condizione di disabilità entro le multiformi articolazioni inevitabilmente vincolate alla soggettività dei diversi individui e dei rispettivi contesti di vita.
Il procedimento di valutazione multidimensionale sviluppa le intuizioni della valutazione di base utilizzando un metodo multidisciplinare fondato sul citato approccio bio-psico-sociale che, tenendo conto delle indicazioni dell’ICF e dell’ICD, ha come esito la definizione degli obiettivi da realizzare attraverso il progetto di vita (per un approfondimento sulle novità introdotte sul progetto di vita si rinvia all’articolo «Il nuovo Progetto di Vita individuale, personalizzato e partecipato: quale valore aggiunto per le persone con disabilità?» di Chiara Beccoi, Alice Brambilla, Silvia Loponte, Arianna Zanoni presente in questo numero).
Il procedimento multidimensionale si articola in quattro fasi: rilevazione degli obiettivi della persona secondo i suoi desideri e le sue aspettative, nonché definizione del profilo di funzionamento nei differenti ambiti di vita; individuazione delle barriere e dei facilitatori; formulazione delle valutazioni inerenti al profilo di salute fisica, mentale, intellettiva e sensoriale, ai bisogni della persona e ai domini della qualità di vita, in relazione alle priorità della persona con disabilità; infine, definizione degli obiettivi del progetto di vita.
Il Referente per l’attuazione del progetto di vita: un (nuovo) profilo professionale per l’inclusione?
Un ulteriore elemento di novità presente nel d.lgs. è l’introduzione del Referente per l’attuazione del progetto di vita (art.29). I compiti del Referente spaziano dalla cura della rete di servizi previsti per la realizzazione del progetto all’assistenza ai responsabili e referenti dei differenti interventi al fine di assicurare il coordinamento tra i singoli servizi. Il Referente ha, inoltre, il compito di monitorare lo stato di attuazione del progetto di vita garantendo il pieno e costante coinvolgimento della persona con disabilità.
Si tratta di un profilo professionale il cui perimetro richiama altre professioni che si occupano di inclusione come, ad esempio, il Disability Manager, sempre più diffuso nei contesti lavorativi. Tra i riferimenti normativi nazionali più recenti, va segnalato il richiamo presente nel decreto ministeriale n. 43 dell’11 marzo 2022 di adozione delle Linee guida al decreto legislativo n. 151/2015 in materia di collocamento mirato, in cui viene dedicata specifica attenzione al ruolo del «Responsabile dei processi di inserimento delle persone con disabilità». Un elemento che accomuna questo profilo e quello del Referente per il progetto di vita è la funzione di manutenzione della rete dei servizi. Il Responsabile dei processi di inserimento delle persone con disabilità, infatti, ha il compito di curare il rapporto con tutti gli enti chiamati a sostenere attivamente la persona nel suo rapporto con il luogo di lavoro, primo fra tutti il servizio di collocamento mirato all’interno del centro per l’impiego, ma anche i servizi dedicati alla mobilità, all’assistenza personale, all’assistenza sociale, così come definiti all’interno del progetto personalizzato di inserimento.
Sarà interessante capire se la sperimentazione delle nuove disposizioni che partirà il 1° gennaio 2025 dedicherà attenzione al ruolo e alle funzioni del Referente per il progetto di vita e se la sua concreta declinazione territoriale permetterà di individuare spunti per intervenire sull’eterogeneità dei fattori in ambito giuridico, professionale e formativo che caratterizzano ad oggi il dibattito sui profili professionali che si occupano di inclusione affinché questi profili possano, in piena sintonia con gli assunti del d.lgs. 62/2024, garantire a ogni persona la piena partecipazione sociale (anche) attraverso l’inclusione lavorativa.
Ilaria Fiore
PhD Candidate ADAPT – Università di Siena
@ilariafiore_
Emmanuele Massagli
Presidente di Fondazione Ezio Tarantelli – ADAPT Senior Fellow
@EMassagli