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Bollettino ADAPT 20 febbraio 2023, n. 7
Il diritto all’istruzione e all’accesso alla formazione professionale è riconosciuto e tutelato in una prospettiva multilivello. L’art. 14 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) garantisce universalmente il diritto all’istruzione e, più in generale, il diritto allo studio e alla formazione professionale; nel nostro ordinamento, il diritto allo studio e all’elevazione culturale è espressamente sancito dall’art. 34 della Costituzione, che, oltre a garantire l’istruzione obbligatoria e gratuita a tutti per almeno otto anni, attribuisce valore costituzionale all’interesse dei “capaci e meritevoli” a completare e proseguire il percorso formativo scolastico e professionale, al fine di “raggiungere i gradi più alti degli studi”.
Anche all’interno del mercato del lavoro e, specialmente, all’interno del rapporto di lavoro subordinato il diritto allo studio ha assunto un rilievo sempre maggiore attraverso il riconoscimento di agevolazioni e vantaggi a favore dei lavoratori studenti, con l’obiettivo di fornire loro gli strumenti necessari per affiancare l’impegno lavorativo ad attività finalizzate ad un arricchimento del patrimonio culturale e tecnico-professionale.
Il diritto allo studio nello Statuto dei Lavoratori
Nell’ordinamento italiano, la tutela legislativa del diritto allo studio a favore dei lavoratori studenti trova un riconoscimento nell’art. 10 dello Statuto dei Lavoratori, che delinea nel dettaglio gli elementi essenziali, inclusi i contenuti, i soggetti titolari nonché i presupposti per il suo effettivo esercizio e delimita il potere direttivo del datore di lavoro nell’ambito del rapporto di lavoro intercorrente con il lavoratore studente.
In particolare, al lavoratore sono riconosciuti sia agevolazioni nella gestione del tempo di lavoro che un diritto alla fruizione di permessi retribuiti. Al primo comma, il legislatore del 1970 ha previsto che «i lavoratori studenti, iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali» possono godere di turni agevolati per la frequentazione di corsi e per la preparazione di esami e, altresì, di un esonero dal lavoro straordinario e durante i riposi settimanali.
Da questa prima parte della disposizione legislativa, si evince che i requisiti indispensabili per il godimento dei diritti in essa contenuti consistono: i) nell’effettiva iscrizione e, conseguentemente, nella frequenza da parte del lavoratore di un corso di studio, ii) nella regolarità dei corsi frequentati e, infine, iii) nell’appartenenza della scuola frequentata ad uno dei vari ordini individuati tassativamente dalla norma ovvero nell’abilitazione dell’istituto formativo al rilascio di titoli di studio con valore legale.
Ad arricchire il contenuto del diritto allo studio, interviene il secondo comma dell’art. 10 St. lav., il quale attribuisce ai lavoratori studenti un beneficio ulteriore, ossia il diritto di fruire di permessi retribuiti giornalieri per sostenere le prove di esame, includendo tra i soggetti titolari anche gli studenti universitari, presumibilmente esclusi dalla tutela di cui al comma precedente in quanto non espressamente menzionati.
Dalla lettura complessiva del primo e secondo comma dell’art. 10 St. lav. si ravvisa una disparità di trattamento che interessa i lavoratori studenti universitari; infatti, stando alla disposizione di legge, questi ultimi sarebbero beneficiari esclusivamente di permessi retribuiti da fruire per lo svolgimento delle prove di esame, rimanendo esclusi dalle altre forme di tutela. Tale diversificazione di tutele ha sollevato numerosi dubbi in dottrina. Tuttavia, nonostante la Corte Costituzionale abbia ritenuto inammissibile la censura di legittimità costituzionale sollevata nel 1971 (cfr. Corte Cost. 13 febbraio 1974, n. 28), si può sostenere che la questione è stata ampiamente ridimensionata, o persino superata, grazie all’intervento della contrattazione collettiva che ha uniformato i trattamenti, estendendo anche ai lavoratori frequentanti corsi universitari (triennali, magistrali o master), le differenti agevolazioni previste in materia.
Ferme restando le ampie tutele legislative in capo ai lavoratori che intendono impiegare la rimanente energia psico-fisica in impegni di natura scolastica e formativa, il terzo comma, per evitare un “abuso” dei diritti qui descritti, ha stabilito che il datore di lavoro ha la facoltà di richiedere la produzione di tutti i documenti attestanti l’iscrizione e la frequenza ai corsi nonché l’eventuale partecipazione agli esami (tenuto conto che il superamento o meno della prova non riveste alcuna rilevanza).
Rispetto a quest’ultimo punto, con la recente sentenza del 9 settembre 2020 del il Tribunale di Vicenza è stato ribadito il principio secondo cui il diritto allo studio non deve essere qualificato come diritto assoluto e incomprimibile del lavoratore, ma come un diritto che va contemperato con le esigenze organizzative del datore di lavoro e «in particolare, la concessione dei benefici previsti dall’art. 10 può essere prevista solo nel caso in cui essa non comporti un grave pregiudizio per il datore di lavoro» (cfr. Cass. 28 novembre 1995, n. 12265).
Non c’è una prescrizione normativa su come il datore di lavoro possa richiedere le informazioni. Si possono comunque ritenere congrue, a titolo esemplificativo, le seguenti modalità: i) l’invio di una richiesta scritta tramite l’indirizzo di posta elettronica, ii) la predisposizione di un regolamento aziendale ad hoc, in cui si specificano la documentazione necessaria per l’ottenimento dei benefici, le modalità di trasmissione all’azienda e gli eventuali termini di preavviso da osservare, oppure iii) l’elaborazione un apposito modulo a disposizione dei dipendenti che sono tenuti a compilare e a trasmettere in caso necessità.
Ciò che è certo, è che l’ultimo comma della disposizione statutaria dispone che l’onere di certificare e documentare la sussistenza dei requisiti necessari per accedere al beneficio grava interamente sul lavoratore interessato, il quale, laddove il datore di lavoro ne faccia richiesta o lo preveda tramite disposizioni aziendali, deve impegnarsi a fornire tutte le informazioni utili anteriormente al godimento dei benefici.
Accanto ai diritti riconosciuti dall’art. 10 St. lav. si segnala un ulteriore beneficio, il c.d. congedo per la formazione, disciplinato dalla Legge 8 marzo 2000, n. 53 (“Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”). In particolare, l’art. 5 concede al lavoratore studente, che abbia almeno cinque anni di anzianità di servizio, la facoltà di richiedere un periodo di aspettativa non retribuita – durante il quale si conserva il posto di lavoro –, non superiore ad undici mesi, continuativo o frazionato, nell’arco dell’intera vita lavorativa, finalizzato «al completamento della scuola dell’obbligo, al conseguimento del titolo di studio di secondo grado, del diploma universitario o di laurea, alla partecipazione ad attività formative diverse da quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro».
Il diritto allo studio nella contrattazione collettiva
Definita la struttura portante della disciplina, occorre esaminare il rapporto tra legge e autonomia privata collettiva per comprendere il ruolo fondamentale rivestito dalla contrattazione collettiva nell’attuazione e nella concretizzazione di quanto previsto nello Statuto dei lavoratori, oltre che nel riconoscimento dello studio e della formazione quali elementi strutturali del rapporto di lavoro.
La contrattazione collettiva, con soluzioni abbastanza omogenee nei diversi settori, rafforza e amplia le tutele già previste dal legislatore del 1970. La maggioranza dei contratti collettivi nazionali prevede almeno 150 ore di permessi retribuiti da concedere al lavoratore studente per frequentare corsi di studio, e non solo per sostenere gli esami, “in orari coincidenti con quelli di servizio” (cfr. Cass. 18 settembre 2020, n. 19610; Cass. 22 aprile 2008, n. 10344). E delineano ulteriormente la fattispecie, definendo la sfera soggettiva di applicazione del beneficio, l’arco temporale – generalmente corrispondente ad un triennio – e le modalità di fruizione, imponendo determinate condizioni che il lavoratore e il datore sono tenuti a rispettare.
Con riferimento a quest’ultimo punto, si osserva che i CCNL fissano alcuni limiti, tra cui, a titolo esemplificativo: i) il corso frequentato deve prevedere una durata di almeno il doppio delle ore di permesso usufruite oppure ii) la percentuale massima di lavoratori che possono fruire contemporaneamente dei permessi retribuiti, in linea di massima, non può superare il 2 o 3%, rendendo legittimo, in caso di superamento, un eventuale mancato accoglimento o un differimento della concessione da parte del datore di lavoro.
Accanto alle 150 ore di permesso retribuito, la contrattazione collettiva si inserisce nella materia con ulteriori previsioni di miglior favore, attribuendo ai lavoratori studenti, in specifici settori commerciali, ulteriori permessi, retribuiti e non retribuiti, per consentire la preparazione degli esami, nonché introducendo agevolazioni e sistemi premiali per i dipendenti che ottengono un titolo di studio.
Per quanto attiene alla prima iniziativa, si riportano a titolo di esempio alcuni casi di contrattazione collettiva: tra gli altri, i) il CCNL Metalmeccanici prevede ulteriori 16 ore di permesso retribuito per la preparazione di eventuali prove di esame; ii) analogamente, il CCNL Commercio Terziario mette a disposizione altre 40 ore di permesso retribuito, e, sempre ai medesimi fini, iii) il CCNL Chimico farmaceutico concede, a richiesta, permessi non retribuiti fino ad un massimo di 20 giorni.
Le disposizioni contrattual-collettive sono state anche oggetto di interventi giurisprudenziali, soprattutto con riferimento all’applicazione soggettiva del diritto allo studio. Una recente sentenza della Corte Suprema ha stabilito che la formulazione “i permessi sono concessi per la frequenza di corsi finalizzati al conseguimento dei titoli di studio universitari”, nel caso di specie contenuta nel CCNL “Federcasa”, esclude dalla fruizione delle 150 ore di permesso per motivi di studio, i lavoratori studenti universitari c.d. fuori corso (cfr. Cass. 18 settembre 2020, n. 19610). Analogamente, i permessi giornalieri retribuiti non possono essere fruiti dai lavoratori che svolgono il tirocinio per la pratica forense o partecipano a concorsi di abilitazione a una professione, non potendo equiparare quest’ultimi alla frequentazione di un corso universitario oppure di specializzazione post universitario (cfr. T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 24 settembre 2013, 1337).
Alcune condivisibili pronunce di merito, che hanno affrontato le problematicità applicative della disciplina sui permessi studio connesse alla didattica a distanza, si sono orientate verso la concessione di tale diritto anche ai lavoratori studenti delle università telematiche, purché “certifichino in maniera incontrovertibile la frequenza delle lezioni ovvero il sostenimento degli esami, in concomitanza con l’orario di servizio” (cfr. Trib. Monza 22 luglio 2020, n. 64; Trib. Trapani 20 maggio 2020).
Lavoratori part-time, lavoratori a termine e principio di non discriminazione
Per concludere, merita una breve riflessione la questione relativa all’applicabilità della disciplina in materia di permessi per motivi di studio ai contratti di lavoro part-time e ai rapporti di lavoro a tempo determinato.
Con specifico riferimento ai rapporti di lavoro a tempo parziale, occorre segnalare due aspetti fondamentali: da un lato, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, piuttosto risalente, i lavoratori a tempo parziale possono fruire regolarmente dei permessi retribuiti di matrice contrattuale anche in assenza di specifica previsione, purché il monte-ore venga proporzionalmente ridotto in ragione della minore durata dell’orario di lavoro; dall’altro, la vigente normativa in materia di contratti di lavoro (D.lgs. n. 81/2015) prevede un ulteriore strumento di tutela volto ad agevolare i lavoratori studenti nella conciliazione delle attività lavorative con gli impegni di studio.
In particolare, nell’ambito delle disposizioni che regolano il lavoro a tempo parziale, l’art. 6, comma 7, del D.lgs. n. 81/2015 riconosce ai lavoratori studenti con rapporto di lavoro part-time, la facoltà di revocare unilateralmente il consenso prestato alla clausole elastiche, le quali consentono al datore di lavoro sia la variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa sia la variazione in aumento della sua durata; infatti, il venir meno di tali pattuizioni, volte ad attenuare la rigidità della collocazione delle prestazioni di lavoro e permettere una maggiore flessibilità, determina una definizione rigida della collocazione della prestazione del lavoratore studente che non può modificata unilateralmente dal datore di lavoro.
Infine, relativamente ai rapporti di lavoro a termine, la Corte di Cassazione ha confermato il riconoscimento del diritto di fruizione dei permessi per motivi di studio anche in capo ai lavoratori a tempo determinato, impostando il ragionamento logico-giuridico sulla base del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a tempo determinato di cui all’art. 6 del D.lgs. n. 368/2001 – oggi abrogato e di fatto sostituito dall’art. 25 D.lgs. 81/2015 – in attuazione della Direttiva 1999/70/CE (cfr. Cass. 19 agosto 2011, n. 17401). Il principio euro-unitario di non discriminazione si applica infatti ad ogni trattamento economico e normativo, ad eccezione dei casi in cui sussista un’obiettiva incompatibilità con la natura del contratto a tempo determinato.
In definitiva, è ammissibile che i datori di lavoro si rifiutino di concedere i permessi studio a lavoratori a termine esclusivamente in presenza di ragioni obiettive di incompatibilità – non traducibili nella mera esistenza del termine di durata del rapporto -, “con la conseguenza che l’ostacolo che impedisce il riconoscimento di un determinato diritto, non solo deve rivelarsi non eliminabile con frazionamenti temporali del trattamento […] ma deve, altresì essere valutato in concreto in relazione alle specifiche modalità di svolgimento del rapporto e alle obiettive esigenze e finalità su cui si fonda la legittima apposizione del termine” (cfr. Cass. 19 agosto 2011, n. 17401; Cass. 17 febbraio 2001, n. 3871).
Francesca Rotondi
Scuola di dottorato in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena