La vera “garanzia” è la “partecipazione sociale”. Il punto di vista di Howard Williamson

Il successo della Garanzia Giovani non deve essere misurato sulla sua capacità di creare nuovi posti di lavoro. Non illudetevi non ne creerà nemmeno uno. Questo deve essere chiaro. Non è una panacea contro i mali del mondo, ne vuole esserlo. Non giudichiamola allora per questo, ma piuttosto per la sua capacità di restituire ai ragazzi la forza e la fiducia di poter credere in un’opportunità, per la sua attitudine ad aumentare la partecipazione dei giovani alla vita sociale e politica, per le risposte che sarà capace di dare a quei ragazzi che vorranno mettersi in gioco. La Garanzia Giovani prima di essere una politica occupazionale – o meglio una politica per l’occupabilità – è una politica sociale volta ad aumentare e a rendere effettiva la partecipazione dei giovani alla società. Su questi parametri va valutato il suo successo.
 
L’obiettivo principale della Raccomandazione europea è quello di garantire ai giovani un’opportunità di partecipare alla società apportando il loro contributo attivo. Secondo Howard Williamson, professore dell’Università di Glamorgan, presso cui tiene un corso sulle politiche europee per incentivare la partecipazione sociale dei giovani, la Raccomandazione europea deve essere giudicata per il suo impatto sulla “partecipazione sociale” dei giovani europei, perché è su questo che si misura il futuro dell’Europa. Per dire se funzionerà o meno, occorrerà allora valutare la sua capacità di influenzare la partecipazione dei giovani alla politica, il suo impatto sulle principali conseguenze della crisi sui giovani (dalla prolungata disoccupazione giovanile sino a una serie di problemi di salute, specialmente psicofisici) ed infine per la sua capacità di raggiunge i giovani più a rischio di esclusione sociale. Insomma, il successo del programma europeo si misura nella sua capacità di creare “inclusione sociale”.
 
La posizione ed il ruolo che i giovani “dovrebbero” ricoprire nella società è da sempre una questione dibattuta. Spesso però il tema viene affrontato con il distacco retorico e insignificante degli appelli ad una maggiore partecipazione dei giovani. Non è che gli appelli e gli annunci non servano, ma, secondo Williamson «da soli non bastano a cambiare le cose. Seppure dal 2010, lo strumento del Dialogo strutturato con i giovani sulla partecipazione dei giovani alla vita democratica, si sia concentrato sul tema dell’occupazione giovanile rappresentando un’utile piattaforma per dare voce ai giovani su alcune questioni chiave, ha spesso finito per tradursi in un contenitore di idee incapace di comunicare con la stanza dei bottoni». Per far funzionare davvero lo strumento del dialogo strutturato, spiega Williamson «sarebbe necessario coinvolgere all’interno di esso ed in modo effettivo l’ “other side”– i decisori politici e istituzionali, gli operatori del mercato del lavoro – perché solo mettendo assieme le varie forze è possibile fare sì che le cose vadano in maniera differente. Raramente l’ “other side” è impegnato in un dialogo effettivo con i giovani: a mancare è la capacità di ascoltare, la visione di sistema». Tale preoccupazione anima la Raccomandazione Europea sulla Garanzia Giovani. Se infatti, in essa c’è qualcosa di innovativo – non sono certo i contenuti ben noti alla maggior parte degli Stati europei e in diversa misura inglobati nelle loro politiche nazionali – questo qualcosa è il metodo, la visione che la anima.
 
La Raccomandazione richiede agli Stati Membri di implementare le misure in essa contenute attraverso l’elaborazione di strategie basate sulla partnership. Un coinvolgimento che si deve realizzare tanto nella fase progettuale che in quella attuativa. Come a dire che non basta far sedere attorno allo stesso tavolo i ragazzi, le istituzioni formative e quelle politiche (nazionali e territoriali), gli operatori del mercato del lavoro (pubblici e privati), le associazioni sindacali (dei lavoratori e datoriali), il terzo settore, ma occorre che questi dialoghino arrivando a prendere decisioni condivise. Secondo Williamson, «la chiave di volta è la dimensione partecipativa, l’inclusione dei giovani nelle procedure decisionali a tutti i livelli assunte. Nel Regno Unito, tempo fa, circolava un paper che indicava l’opportunità di inserire due giovani nel consiglio di amministrazione di ogni società operante nell’UE. Un’idea meravigliosa, in un certo qual modo avanguardista, passata in sordina, ma significativa del fatto che la questione “partecipazione giovanile” sfuma in modo piuttosto drammatico man mano che ci si allontana dal ghetto delle politiche giovanili. Occorre che l’impegno al dialogo e alla partecipazione sia a doppio senso: da una parte occorre che le istituzioni e i privati coinvolgano di più i ragazzi nelle procedure decisionali e non solo in quelle consultive e dall’altra occorre che i ragazzi vogliano e richiedano di essere coinvolti. I mezzi a disposizione oggi ci sono e hanno una potenzialità enorme: penso in particolare ai social media e più in generale al web».
 
Occorre un salto di qualità. «Se è vero che il tema “giovani” è un tema unanimemente ritenuto centrale, è altrettanto vero – spiega Williamson – che c’è un problema di “posizionamento” che tende a svuotare di contenuti il dialogo sulle politiche giovanili. Il confronto su questi temi, se da una parte è spesso troppo “educato”, ovvero troppo attento a non “dispiacere” qualcuno, dall’altra, all’estremo opposto finisce spesso per degenerare in disfattismo degenerando in un critica non costruttiva. La discussione condotta su questi due poli estremi ha l’effetto di non produrre alcun risultato, seppure per motivazioni opposte». Occorre quindi maggiore capacità di “stare nel mezzo”, mettendo le basi per un confronto critico ma propositivo. È come se la questione giovanile fosse trattata in modo non professionale da chi si incensa di esserne portavoce. «Io credo che il sapersi proporre come interlocutori qualificati sia l’unica strada per sedersi davvero al tavolo di chi decide con qualcosa non solo da dire ma anche da fare».
 
Il successo di un programma come Garanzia Giovani dipende dalla sua capacità di proporsi come un trampolino di lancio verso il mondo del lavoro, dalla sua reputation tra i giovani e le imprese, insomma dalla credibilità delle azioni ad essa connesse e dalla loro attitudine a dare risposte effettive a ragazzi spesso già “scoraggiati”. I contenuti del programma europeo non sono però per nulla innovativi. «Un progetto di garanzia giovani è stato implementato nel Regno Unito nel 1988. Ancor prima se ne parlava e si iniziavano ad avviare esperienze concrete in Svezia e Finlandia. Nel Regno Unito il programma ha avuto effetti contrastanti, funzionando abbastanza bene per i giovani disoccupati ma sufficientemente “vicini” al mercato del lavoro (sulla base delle loro competenze, motivazione o collocazione geografica), mentre quelli più distanti, non hanno tratto vantaggio da questo programma, in parte perché ricevevamo ciò che ritenevano essere le offerte peggiori. Questo ha generato, quello che nel 1993 ho definito “status zero” (si veda anche H. Williamson, Status ZerO youth and the ‘underclass’. Some considerations): nel Regno Unito il programma di garanzia prevedeva che la non accettazione delle offerte connesse alla “garanzia” comportava la perdita del diritto a beneficiare delle indennità di disoccupazione e delle altre forme di sostegno del reddito, questo ebbe l’effetto di far scomparire ed alcuni giovani, soprattutto quelli a maggiore rischio di esclusione sociale, che non avendo alcun interesse a partecipare a queste iniziative registrandosi presso i servizi per il lavoro, finirono per diventare invisibili».
 
Senza dubbio però Garanzia Giovani ha avuto il merito di riportare il tema dell’occupazione giovanile al centro del dibattito politico europeo e internazionale. «La mia impressione è che però si tenda ad associare ad essa aspettative che non può non tradire. Il problema della disoccupazione giovanile in Europa è prima di tutto un problema di quantità e qualità della domanda di lavoro piuttosto che di inadeguatezza dell’offerta. In Europa infatti molti dei giovani disoccupati sono sovra qualificati rispetto alle opportunità di lavoro disponibili. Garanzia Giovani è una politica attiva il cui obiettivo non è quello di creare posti di lavoro ma quello di riattivare i ragazzi, di ridurre gli effetti della disoccupazione giovanile di lunga durata».
 
In letteratura si parla di “effetto cicatrice” per riferirsi alle tracce permanenti che la disoccupazione giovanile può lasciare, come un rischio più elevato di disoccupazione in futuro, livelli ridotti di reddito futuro, perdita di capitale umano, trasmissione di povertà tra generazioni o minore motivazione a fondare una famiglia, contribuendo a tendenze demografiche negative. Il 30,1 % dei disoccupati di età inferiore ai 25 anni nell’Unione lo è da oltre dodici mesi. Inoltre, sempre più giovani non cercano un lavoro in modo attivo e, di conseguenza, non hanno un sostegno strutturale che li aiuti a rientrare nel mercato del lavoro. A questi ragazzi la Garanzia Giovani dovrebbe sforzarsi di dare delle risposte dando loro la possibilità di fare esperienze che favoriscano la loro partecipazione sociale. Per questo motivo, secondo Williamson, il servizio civile o la predisposizione di misure volte a sostenere le iniziative imprenditoriali dei giovani possono essere validi strumenti per realizzare il vero obiettivo della Garanzia Giovani: restituire ai ragazzi la fiducia di un domani all’altezza dei loro sogni e delle loro aspettative, supportandoli nelle loro transizioni verso l’età adulta, non lasciandoli soli. La Raccomandazione europea guarda ai Neet, ai ragazzi che non studiano e non lavorano e che si trovano nel limbo del non essere, del non partecipare. Il successo di Garanzia Giovani deve essere misurato sulla base delle risposte che saprà dare a questi ragazzi – soprattutto a quelli più lontani e ai margini – e sugli effetti che queste sapranno produrre in termini di partecipazione dei giovani alla società. Non sui numeri degli iscritti. Non sul numero di colloqui fatti o sulle offerte pubblicate.
 

Dario Pandolfo

ADAPT Junior Fellow

@_1881

 
 
Giulia Rosolen
ADAPT Research fellow
@GiuliaRosolen
 


[*] Howard Williamson, insegna all’Università di Glamorgan dove tiene un corso sulle politiche europee per i giovani. In precedenza ha lavorato presso le Università di Oxford, Cardiff e Copenaghen. Collabora con l’Unione europea sui temi legati alla partecipazione sociale dei giovani. Tra i diversi lavori di cui si è occupato E ‘stato consulente del Governo inglese, in particolare su iniziative politiche per l’occupazione giovanile, quali il New Deal. Il presente articolo è un riadattamento dell’intervista rilasciata a Williamso ad Euractiv il 25 agosto 2014 sul tema della Garanzia Giovani e pubblicata a questo link http://www.euractiv.com/sections/social-europe-jobs/scientist-youth-guarantee-cannot-create-jobs-307952.

 
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