La strada verso la “Buona Scuola” appare per il Governo più travagliata di quanto si potesse immaginare. Quali sono le regioni di una simile impasse? La riforma della scuola richiede necessariamente – come qualche commentatore suggerisce – dei tempi lunghi?
La riforma della scuola credo sia la riforma principale per un Paese in ritardo come il nostro. Non si tratta di una questione di tempi lunghi, si tratta in primis di prevedere obiettivi chiari e di alto profilo: un’idea forte, cioè, rispetto a dove portare il sistema educativo formativo nazionale. Questo è il punto cruciale e per farlo è necessaria un’operazione di partecipazione reale (e non simulata o fatta di semplici annunci) che coinvolga tutti i soggetti del sistema scolastico. Purtroppo questo non è stato fatto e lo si evince dal fatto che, alla fine dei conti, La buona scuola evidenzia quei deficit di impostazione che avevano già caratterizzato altre riforme, più o meno riuscite, del passato: è molto incentrata (direi quasi “schiacciata”) su aspetti gestionali e organizzativi mentre manca di un’idea di prospettiva, manca una visione strategica, su quale sistema formativo deve darsi il Paese. Ci auguriamo che il percorso aperto attraverso lo strumento del disegno di legge, offra più tempo ad un vero confronto, possa aiutare il Ministro e il Governo a far diventare quello sulla scuola un dibattito veramente partecipato, non solo a livello parlamentare ma con il pieno coinvolgimento della scuola reale e delle sue rappresentanze, per contribuire ad un cambiamento effettivo del sistema educativo.
Il provvedimento del Governo abbraccia diverse tematiche del sistema scuola. Può indicare un aspetto positivo e uno negativo della #buonascuola?
L’aspetto positivo è senz’altro nella volontà di affrontare in maniera decisa gli aspetti problematici legati alla questione degli organici e più in particolare al precariato. Il suo funzionamento reale. La buona scuola mette al centro le carenze strutturali della scuola, cosa che da anni denunciamo perché non ci può essere una “buona scuola” se non si valorizza opportunamente chi la “buona scuola” la fa ogni giorno, come e dove si fa. Aspetto negativo: approssimazione e leggerezza nell’approccio ad un tema delicatissimo ma dirimente quale la realizzazione dell’autonomia scolastica. Traspare nell’approccio una interpretazione quasi “autarchica” e di autosufficienza che nella figura del dirigente scolastico pretende di individuare “l’uomo solo al comando”. L’autonomia, invece, è la cifra più alta dell’espressione della scuola come comunità educante, al cui interno agiscono nella condivisione e nella corresponsabilità, soggetti diversi e complementari. L’approccio del Governo rischia di indebolire il sistema piuttosto che rafforzarlo: è quindi urgente aprire sull’autonomia scolastica un serio confronto, che miri alla sua implementazione, anche verificando le esperienze migliori in corso negli altri Paesi rispetto, ad esempio, al tema decisivo della valutazione, la vera sfida di una riforma seria della scuola che la CISL è pronta a sostenere nel confronto con il Governo.
L’immissione in ruolo dei precari continua a suscitare non poche perplessità. Siamo di fronte ad una riforma che guarda agli studenti o ai professori?
Le due cose non sono configgenti ma il fatto stesso che sorgano dei dubbi rispetto a quali interessi si privilegino, non depone proprio a favore di questo provvedimento perché una scuola davvero buona sta dalla parte degli studenti e di tutte le altre sue componenti, professionali (tra cui gli ATA, colpevolmente dimenticati) e sociali. Torno a ripetere che il problema non sono i singoli strumenti bensì quali sono gli obiettivi generali verso cui dirigersi. Semplificando: non basta inserire qualche ora in più o qualche materia aggiuntiva o potenziata: se è chiaro dove si vuole portare la scuola, allora serviranno profili professionali e organico nuovo. Il Governo, per “effetto annuncio”, si è infilato in un bel pasticcio. Dovrebbe far coincidere la risposta al precariato con esigenze di qualificazione della scuola, mentre su questo aspetto vediamo troppo appiattimento su esigenze di consenso. Noi vorremmo che si facessero entrambe le cose: colmare gli organici attingendo da tutte e tre le aree (GAE, precari a 6 mesi, idonei ai concorsi) ma a partire dal fabbisogno reale, che ancora non c’è, e faccio fatica ad immaginare che si possa fare da qua a fine anno.
Scuola e lavoro. Le intenzioni del Governo sembrano quelle di rafforzare l’alternanza formativa. Eppure nel Jobs Act la riforma dell’apprendistato scolastico porta ad una maggiore burocratizzazione dello strumento. Da quel che si evince, poi, nella Buona Scuola non vi è nulla di veramente nuovo. Cosa dovrebbe fare il Governo in questo senso?
Sul rapporto scuola-lavoro, il Governo rischia di cadere nella trappola dell’ideologizzazione che pure enfaticamente stigmatizza. Il problema è molto serio e non può ridursi né alla mera questione polemica dell’abbassamento dell’obbligo ai 15 anni di età, che ha senso solo dentro un progetto ampio di rilettura e qualificazione dei profili educativi culturali e professionali, né soprattutto ad uno spostamento tout court delle titolarità e delle responsabilità dall’amministrazione scolastica all’impresa. Quello che manca è un investimento serio non solo di risorse economiche ma anche culturale per diffondere la dovuta sensibilità nelle aziende. Un ragazzo proveniente da un istituto tecnico o da un liceo che entra in un’impresa non apprende di per sé il lavoro: l’alternanza serve a conoscere un ambiente lavorativo, a capirne il funzionamento, l’organizzazione, le regole. È una opportunità educativa straordinaria e per questo la sua realizzazione deve rimanere saldamente ancorata al percorso formativo dello studente di cui la scuola è responsabile. A tal fine, anche le imprese selezionate devono essere “buone imprese”, realtà cioè che non ne traggano solo improprie convenienze nel breve periodo, ma che esprimano anche la dovuta attenzione e sensibilità per ospitare un ragazzo che deve “familiarizzare” con l’ambiente lavorativo.
Cosa pensa della dichiarazione di Poletti di accorciare le vacanze estive utilizzando un mese di quelli a disposizione per fare un’esperienza lavorativa?
Da 20 anni assistiamo – e purtroppo da parte di ministri e governanti – alle sterili polemiche e all’infondato scandalismo sul tema delle vacanze dei nostri ragazzi. Volendo dare per scontate sia la buona fede di Poletti sia la conoscenza ormai diffusa che le vacanze scolastiche sono omogenee per quantità agli altri sistemi europei ma solo distribuite diversamente nell’anno, la questione che il Ministro pone sarebbe pure interessante se alla generica lamentazione seguissero indicazioni chiare – in termini sistemici di prospettive, governance, risorse – su come arricchire questo tempo. In un momento come questo di esplosione della disoccupazione giovanile che perfino gli incentivi e le agevolazioni per l’inserimento lavorativo faticano ad arginare, prudenza e saggezza dovrebbero prevalere su tutti, per evitare di banalizzare questioni importanti che attengono piani e dimensioni altrettanto importanti e complessi, oltre quelli propri della progettualità educativa, e cioè il funzionamento scolastico e la disciplina del lavoro nella scuola, il ruolo e le responsabilità degli enti locali, l’istanza di conciliazione lavoro-famiglia e dei servizi di supporto, la sussidiarietà territoriale e sociale.
L’aver detto in modo chiaro che la Scuola pubblica ha e avrà sempre più bisogno di fondi privati ha creato molti malumori e sollevato diverse proteste. Qual è il suo giudizio su questo passaggio del documento de Governo? L’apertura al mondo privato va valutata positivamente o è un rischio da evitare?
La prima cosa che dovrebbe fare il Governo, è guardare la scuola non tanto come un settore bensì come un sistema vivo e radicato sul territorio di cui la comunità deve potersi fare carico, responsabilmente. Purtroppo sembra prevalere un approccio burocratico e rigido che nega di fatto il ruolo e il contributo alla “buona scuola” da parte di tutti gli attori coinvolti nel sistema formativo, sia istituzionali che economico-sociali. È credibile un progetto di “nuova” autonomia nella misura in cui essa sia il fulcro attorno al quale ruotano relazioni paritetiche, aperte e di reciprocità tra le istituzioni scolastiche e la rete dei soggetti che in quel territorio amministrano, governano, producono, lavorano, vivono. Una relazione che non può consumarsi nella sola dimensione economica, sia pure importante. Nulla in contrario che i privati sostengano finanziariamente le scuole, anche attraverso il meccanismo del 5 per mille. Se però volessimo leggere “maliziosamente” la premessa (e cioè: apriamo ai fondi privati per colmare l’inadeguatezza delle risorse pubbliche) è chiaro che questa operazione presenterebbe più di una criticità. Di ordine generale, perché è una inaccettabile resa all’incapacità o alla mancata volontà (non si sa cosa è peggio …) di provvedere con una dotazione finanziaria adeguata alla garanzia pubblica del diritto all’istruzione e alla formazione che la Repubblica riconosce, tutela e promuove per tutti i suoi cittadini. Guardando poi alla mappa dello sviluppo industriale e della distribuzione territoriale del reddito del Paese non è difficile immaginare le sorti degli istituti posti nelle aree più deboli. Se, come vogliamo pensare, è una opportunità in più per sostenere la Scuola (e non tanto le singole scuole) del Paese, il meccanismo del finanziamento da parte dei privati (cittadini e imprese) non può non prevedere una governance nazionale e misure di riequilibro solidaristico territoriale.
* Maurizio Bernava, Segretario nazionale Cisl – Segreteria politiche di riforma delle pubbliche amministrazioni, di cittadinanza, tutela e promozione, solidarietà e tutele sociali.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
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