Portare l’Italia nel futuro lasciandoci definitivamente alle spalle quel Novecento ideologico e industriale su cui è stato edificato il nostro diritto del lavoro. È questo l’ambizioso obiettivo del Jobs Act ed è normale che l’attenzione sia ancora una volta tutta concentrata sulla norma simbolo del vecchio Statuto dei diritti dei lavoratori: quell’articolo 18 il cui superamento è divenuto oramai il metro con cui misurare la bontà del progetto modernizzatore di Matteo Renzi.
Eppure la delega sul lavoro non è solo questo. Si parla di un nuovo welfare universale: di moderni ammortizzatori sociali e di servizi di ricollocazione al lavoro che dovrebbero sancire il passaggio dalla tutela del singolo posto di lavoro alla tutela della occupazione nel suo complesso fluidificando così le dinamiche dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Si parla anche di un codice semplificato del lavoro che riduca a unità e in poche norme di legge la complessità dei moderni modi di lavorare e produrre. Centrale, in questa prospettiva, è non solo la razionalizzazione delle tipologie contrattuali e l’avvio del nuovo contratto a tutele crescenti ma anche, e prima ancora, la riscrittura della stessa nozione di impresa. Perché la modernizzazione del mercato del lavoro e il superamento del Novecento ideologico passa anche da un ambiente culturalmente favorevole alla libertà di iniziativa economica: dalla condivisione del valore della impresa che, ancora oggi, appare invece circondata da sospetti e resistenze che ne fanno il luogo inesorabile dello sfruttamento dell’uomo sui propri simili. Non staremmo infatti ancora oggi a discutere di articolo 18 e di mercificazione del lavoro se l’impresa non avesse più nemici che amici e se fosse davvero vista come un valore in sé senza il necessario corredo di comportamenti etici e socialmente responsabili per essere accettata o al più tollerata come male necessario.
Della riforma del lavoro la prima norma da scrivere è dunque quella di cosa è oggi una impresa ben oltre l’attuale definizione del nostro codice civile quale freddo luogo dello scambio di lavoro contro salario. Perché l’impresa è prima di tutto sede della creazione e condivisione di valore e ricchezza. Un’impresa come formazione sociale e non solo economica: luogo di relazioni umane dove si costruiscono appartenenze e valori e dove si forma e sviluppa la persona nelle sue espressioni certamente professionali ed economiche, ma anche culturali e morali. Solo cambiando l’idea di impresa potremmo lasciarci alle spalle la paralizzante conflittualità e i veti del nostro sistema di relazioni industriali e, con essi, quella contrapposizione tra capitale e lavoro che non è più attuale.
Una definizione positiva di impresa cambia necessariamente anche l’idea del lavoro che oggi non è più solo subordinazione tecnica e gerarchica tipica di chi, sotto la minaccia di sanzioni e controlli, esegue ordini e direttive senza invece partecipare in senso pieno al processo produttivo e alla catena del valore. Senza questo passaggio culturale e valoriale, vera cartina di tornasole di un cambio di epoca, non avremo mai l’altro pilastro su cui si regge un sistema produttivo moderno e cioè quell’integrazione tra sistema educativo e formativo e mercato lavoro essenziale per la costruzione delle competenze e dei mestieri del futuro.
I fallimenti nel nostro Paese dell’alternanza scuola-lavoro e dell’apprendistato scolastico e la radicata diffidenza verso i percorsi formativi tecnici e professionali si spiegano infatti anche a causa del disvalore che la nostra società ha per lungo tempo lungo assegnato alla impresa, con il conseguente pregiudizio che chi studia e si forma non può lavorare e viceversa. Cosa che non è mai stata vera e che, comunque, oggi non è più possibile affermare in un mercato del lavoro moderno ed evoluto che richiede continue innovazioni e, conseguentemente, persone con competenze professionali e relazionali idonee a gestire la rivoluzione tecnologica e il cambiamento in atto. Persone che attraverso una più stretta collaborazione tra scuola e impresa hanno imparato a fare e non solo a imparare come ama dire il ministro Poletti.
Pubblicato su Il Sole 24 Ore, Scuola 24, 24 settembre 2014