L’altra faccia della denatalità: quell’ipotesi negletta del dato culturale

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Bollettino ADAPT 22 aprile 2024, n. 16
 
Il passaggio da migliori condizioni economiche al desiderio di formare una famiglia non è scontato, e la questione della discontinuità lavorativa non può più essere adottata come paradigma interpretativo di un fenomeno complesso come quello della denatalità. Che in un numero rilevante di casi è frutto di scelte legate soprattutto a preferenze personali.
 

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Nel 2225 nascerà l’ultimo italiano. È la frase a effetto formulata dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia per sintetizzare il nostro declino demografico. Il fenomeno – recentemente confermato per il decimo anno consecutivo dall’Istat– è tanto noto quanto semplificato. Almeno in un dibattito pubblico contraddistinto da una certa sicumera interpretativa che solo di recente ha cominciato a mostrare segni di cedimento.
 
I sondaggi che vogliono riflettere il clima di opinione generale (così a esempio una recente rilevazione EMG per Adnkronos) evidenziano che, secondo i cittadini, le principali motivazioni del declino della natalità includono l’aumento del costo della vita (37%) e la precarietà del lavoro (35%), seguite dalle basse retribuzioni (29%) e dalla mancanza di servizi per i figli (28%).
 
Sono opinioni in linea con le spiegazioni offerte dai politici. Solo per fare un paio di esempi, Elly Schlein ha sottolineato in più occasioni il “nesso stretto tra la crisi della natalità e la precarietà che colpisce soprattutto i giovani e le donne”. Ma già nel 2014 Renzi aveva affermato (in almeno 25 diverse occasioni pubbliche) che grazie all’aumento dei contratti a tempo indeterminato seguito al “suo” Jobs Act i giovani erano ora in grado di accedere a mutui e formare famiglie (vedi F. Nespoli, La post-Renzi verità sul Jobs Act in Bollettino ADAPT 10 Aprile 2017, n. 14).
 
Il problema del lavoro atipico per i giovani esiste (ne hanno scritto di recente Francesco Seghezzi e Jacopo Sala). Così come esistono i dati a sostegno della correlazione tra incertezza economica e denatalità. Chiara Saraceno su La voce ha fatto notare che la piccola ripresa della fecondità osservata negli anni intorno al nuovo millennio si arresta bruscamente con la crisi economica del 2008, che ha colpito in modo particolare le generazioni più giovani. Diversi studi internazionali hanno poi rilevato come l’aumento dell’incertezza lavorativa possa avere un impatto diretto sul declino del tasso di fertilità delle famiglie (ne ha riassunti alcuni anche Pagella Politica).
 
Il punto è che questa è solo una parte della spiegazione, mentre altri dati e altre motivazioni tendono ad essere trascurati nella comunicazione mediatica. Si tratta di un fatto rilevante, perché la spiegazione economica si può applicare solo a quelle persone che figli ne vorrebbero avere.
 
Il dato trascurato è dunque quello di chi invece non vuole avere figli, a prescindere dalle condizioni economiche in cui versa. Un articolo recentemente pubblicato su Repubblica ha dato spazio al dato delle persone child free, registrato ormai da più rilevazioni. Non stiamo parlando di una minoranza. Secondo un’indagine dell’Istituto Toniolo condotta su settemila donne tra i 18 e i 34 anni,  il 21% afferma chiaramente di non volere figli, mentre il 29% mostra un interesse debole verso la maternità. Ancora più ampia la quota individuata da una ricerca commissionata da Plasmon e pubblicata nel febbraio 2023 secondo la quale il 59,3% di chi non ha figli non desidererebbe averne. Analogo risultato emerge dal rapporto Coop 2023 secondo il quale il 51% delle persone tra i 20 e i 40 anni non è interessato a diventare genitore.
 
L’osservazione di questo rilevante fenomeno non deve portare a sua volta a concludere che la preferenza individuale possa essere trattata come l’unico vero fattore determinante della denatalità (così suggerisce per esempio una pur ricca inchiesta di Ritanna Armeni pubblicata sul Foglio). Si tratta di un fenomeno da osservare nel tempo, riconoscendo che condizione economica e preferenze personali possono comunque essere collegate in vari modi.
 
Si tratta però di dati che sarebbe disonesto trascurare e che pongono le condizioni affinché si rompa una sorta di “spirale del silenzio” in materia, ossia quel fenomeno di autosegregazione, alimentato dalla rappresentazione mediatica maggioritaria, di un’opinione minoritaria come quella di chi afferma che non ci si possa affidare solo alla narrativa della precarietà per spiegare il calo delle nascite ed elaborare dunque soluzioni efficaci.
 
Solo così importanti fattori transgenerazionali possono essere messi sotto i riflettori. E possono essere indagati dalla ricerca.
 
È per esempio interessante notare che il dato culturale emerga proprio quando si vadano ad intervistare i diretti interessati. E se fossero invece proprio i loro genitori, coloro che hanno già avuto figli, a incolpare il mercato del lavoro, le riforme del lavoro, i comportamenti delle imprese per l’assenza di nipoti?
 
Perché non considerare che si tratta di quella generazione che ha sognato un futuro migliore per i suoi figli, e ci è riuscita solo in parte? La parte riuscita del progetto è quella di aver messo a disposizione delle nuove generazioni una ricchezza da consumare e da ereditare senza precedenti. Almeno se si guarda a quello che succederà ai millenial, che saranno i più ricchi di sempre, dopo la morte dei genitori (vedi a riguardo il post di Massimo Taddei su Econopoly). Mentre la parte meno realizzata è manifestata da quella frammentazione delle carriere lavorative che caratterizzano una generazione del 17% più povera di quella dei suoi genitori. Non è peregrina l’ipotesi che questa condizione contradditoria contribuisca a plasmare un contesto culturale con gerarchie di valori diverse dal passato. I più giovani non incolpano i loro genitori per i loro bassi salari e per una stabilità lavorativa che arriva in età avanzata. Nemmeno scendono in piazza per protestare contro riforme generazionalmente inique come Quota 100 e affini, e anzi le valutano positivamente (vedi F. Nespoli e M. Dalla Sega, L’altra garanzia. Poche certezze e molti paradossi per la pensione di garanzia per i giovani, in Bollettino ADAPT 10 febbraio 2020, n. 6). D’altro canto si disinteressano della previdenza complementare e/o non si domandano chi ci assisterà in vecchiaia. Mentre è normale potersi permettere un apericena più volte a settimana e una pur breve vacanza all’estero almeno una volta l’anno, cose che non facevano parte del normale stile di vita dei boomers, che pure hanno generato una ricchezza superiore di quella prodotta dai figli.
 
Mi rendo conto che il rischio di trasformare questa interpretazione in una paternale qualunquista sia dietro l’angolo, così come trattare le generazioni come gruppi omogenei è problematico (un problema classico della sociologia). Ma quello che voglio sottolineare è che se accusare i giovani non deve essere un modo per scaricare su di loro le responsabilità (lo ha affermato di recente il prof. Francesco Billari, rettore dell’Università Bocconi e docente di demografia), incolpare il mercato del lavoro significa d’altro canto deresponsabilizzare quelle generazioni che hanno contribuito a costruire la cultura in cui i più giovani vivono. Giovani che possono vivere (se ne hanno cioè l’opportunità) in una realtà sociale in cui ciò che pochi decenni fa era considerato stra-ordinario ora è comune (Luca Ricolfi a riguardo ha parlato di una “società signorile di massa”). Giovani che, almeno in Italia, nemmeno paiono troppo preoccupati della loro situazione economica se, come ha stimato l’Istat, tra i 20 e i 24 anni, la percentuale di soddisfazione raggiunge il 60,8%.
 
Allora paradossalmente in alcuni casi è la ricchezza, e non la povertà, a poter spiegare meglio alcune scelte. O meglio, è la discrepanza tra la ricchezza ereditata e consumata dalle generazioni figliate dai boomers e quella da loro stesse prodotta. Un paradosso che riflette certo le distorsioni del capitalismo e l’individualismo corrente. Lo stesso individualismo che può spiegare i mutamenti schizofrenici dei consumi, cui consegue l’instabilità dei processi produttivi che a sua volta sottostà alle forme di lavoro atipiche volte a gestirli. Lo stesso individualismo che Putnam ha individuato come causa dell’erosione del c.d. capitale sociale, ossia della partecipazione in istituzioni collettive, tra le quali anche la famiglia.
 
Esistono poi altri dati che ci suggeriscono che la denatalità abbia molto a che fare anche con mutate gerarchie di valori, oltre che con le possibilità economiche. In Italia, e non solo, infatti il tasso di fertilità è più elevato tra le donne immigrate, che fanno parte di famiglie a più basso reddito. Allo stesso tempo, i tassi di fertilità sono bassi anche in territori dove la disoccupazione è vicino ai livelli fisiologici e i redditi sono più elevati della media.
 
Il dato culturale emerge poi anche quando si guardi proprio al mondo del lavoro. Sappiamo che tra chi un figlio lo vorrebbe, spesso il freno principale non è la precarietà contrattuale, ma la difficoltà nel conciliare il lavoro con i tempi della genitorialità (così una corposa indagine di Save The Children pubblicata nel 2022). Un tema da aggredire strategicamente per raggiungere sia tassi di fertilità sia tassi di occupazione femminile quantomeno in linea con la media europea.
 
Ma il valore del tempo libero è un dato culturale interessante anche per trovare le motivazioni del mancato desiderio di avere figli. Sono proprio queste generazioni che ci dicono (anche qui le indagini si sprecano) che, soprattutto dopo la pandemia, il tempo libero è il valore più importante. Non solo in Italia: di recente lo psicologo tedesco Rüdiger Maas ha affermato che per i ragazzi svizzeri tra i 15 e i 30 anni il lavoro non definisca la propria identità quanto la definiscano le attività svolte al di fuori dell’ambito lavorativo. Un atteggiamento influenzato sia dalla situazione demografica e dalla conseguente carenza di manodopera, sia dall’educazione impartita dai genitori.
 
Di fronte all’arretramento della genitorialità nella scala dei propri valori, quale efficacia possono avere le politiche basate sulla sua mera incentivazione economica? Che è poi la stessa strategia adottata anche dal governo Meloni, dal bonus mamme alla conferma delle agevolazioni per i mutui under 36.
Certo, è del tutto sensato agevolare chi con un progetto familiare contribuisce al futuro di una collettività. Perché la denatalità, anche quando è libero esercizio di una volontà, non è solo una questione privata, e il calo demografico ha impatti su economia, sanità, occupazione, welfare. Tuttavia il passaggio da migliori condizioni economiche al desiderio di formare una famiglia non è scontato, e la questione economica non può più essere adottata come paradigma interpretativo di un fenomeno così complesso.
 
Sono dunque ancora una volta i media e i gruppi sociali a svolgere un ruolo cruciale, di influenza culturale e di orientamento. Un tema tutto da esplorare nelle sue varie implicazioni, dalla comunicazione sociale al marketing della natalità (se n’è parlato in una chiave simile durante un recente convegno presso l’Università Cattolica). Anche allo scopo di evitare che si generi un nuovo scontro intestino tra le generazioni di padri e madri e quelle dei loro figli e figlie su una scelta tanto complessa e tanto cruciale per il futuro di un Paese come quella di diventare genitori.
 
Francesco Nespoli
Ricercatore Università di Roma LUMSA

ADAPT Senior Fellow

@Franznespoli

L’altra faccia della denatalità: quell’ipotesi negletta del dato culturale